
Sei sedie colorate di ferro, di quelle che non troppo tempo fa popolavano i refettori delle scuole. Sei attori di cui è doveroso citare i nomi già in principio di questa recensione, per l’estro e la maestria con cui hanno tenuto il palco a ritmo serrato e implacabile, impedendo di fatto anche il più minimo calo d’attenzione.
Matteo Berardinelli, “figlio” scenico di quel Corsetti solo pochi giorni fa amaramente fustigato da Lucidi per il suo Amleto, ma che per fortuna non ci ricorda affatto il “maestro”; Luisa Borini, dalla mimica facciale e presenza scenica impagabili; Francesco Cotroneo, che ci restituisce tutta l’autenticità di un personaggio che passa dai timidi approcci dell’infanzia alle frustrazioni dell’età adulta; Flaminia Cuzzoli, la Momo cresciuta che vuole dimenticare o forse rivivere le “glorie” del suo passato di eroina, dove tutto era più complicato e più semplice insieme; Diletta Masetti, una voce sublime che ti si incastra nelle orecchie e l’istrionico Daniele Paoloni, anche lui una faccia che non si dimentica.
Fatte le dovute premesse, non resta che snocciolare il resto degli elogi: musiche “gocciolanti” di Andrea Cotroneo, che sanno “immergerci”, è il caso di dire, nella fluida atmosfera del ricordo, assistente alla regia Paolo Marconi, che non ci si dimentichi mai di citare gli assistenti! Infine disegno luci (indoviniamo) e regia di Giulia Bartolini.
Sulla Bartolini è opportuno spendere pure qualche parola. Classe ’92, allieva ben sfornata, una volta tanto, della Silvio d’Amico, nata nella provincia che ha dato i natali a Tina Anselmi e Donatella Rettore, dalla politica alla musica passando per l’arte di Giorgione, un Veneto ricco di talenti e promesse mantenute. Come la Bartolini, che con Momo e la città invisibile, si confronta con un gigante della letteratura per l’infanzia: Michael Ende, sì proprio lui, l’autore dell’indimenticabile Storia Infinita, quella con cui noi nati una generazione prima, siamo cresciuti anche grazie alla trasposizione filmica, volando nei sogni con Bastian e Atreju sulle ali di Falcon e gridando il nome della principessa di Fantàsia. Momo è una favola sul tempo, quello perso, avanzato, sprecato, investito, restituito, rubato. Ma qui abbiamo una sorta di spin-off: la Momo che ci si presenta è quella “sopravvissuta” a un mondo “salvato”, un ex-eroina che non sa più incastrarsi in questo tempo nuovo, futuro, cresciuto troppo e troppo lontano da quella felicità infantile sconosciuta e bellissima.
E’ un racconto delicato e intenso, sorprendente, che nulla toglie all’originale e che anzi ne esplora un’ala creativa nel grande immaginario spazio dell’anfiteatro, manco a farlo apposta, in cui Momo cresce con un cappotto di seconda mano senza sapere quanti anni ha per davvero. Inutile sintetizzare il racconto, che andrebbe di diritto ospitato in ogni libreria degna di questo titolo, la proposta della Compagnia CARL e ALTRI prodotta da Khora Teatro, è un’ispirazione alla trama che prende altre strade, si interroga su un futuro così a lungo atteso, immaginato, inventato nella visione di noi bambini e poi piombatoci addosso quasi troppo in fretta, con un carico di ricordi e speranze non di rado pesante da portarsi dietro.
Quando il teatro ci restituisce l’autenticità di uno sguardo che riusciamo a fare nostro, a interiorizzare, vivere nel profondo della nostra anima e a portarci dentro il futuro di gesti, parole, pensieri, allora il teatro ha vinto la sua scommessa vitale. Una fragilissima e stupenda scommessa che non ha niente a che fare con sterili input pedagogici o inopportune rappresentazioni ego-referenziali, il teatro è lo specchio in cui ci guardiamo e se non vediamo niente allora è stato un fallimento.
Non è così per Momo e la città senza nome che sa prendere lo spettatore per mano e portarlo nel mondo dei ricordi perduti, rinnegati, rimpianti, fastidiosamente amati. Un pezzo di teatro che funziona come un ingranaggio dei molti orologi di Mastro Ora, che sa fermare il tempo e farcelo guardare da fuori. Quanti spettacoli ci riescono? Eppure altre platee più gremite concedono tiepidi applausi a nomi prezzolatissimi che non hanno più nulla da dire, o forse mai lo hanno avuto, mentre la vera scena si consuma in un piccolo teatro di periferia, dove pochi astanti si sfregano i calli a forza di applausi.
That’s Italy direbbe qualche radical chic, eppure sono altri inutili chiacchiericci da palco a meritarsi poltrone vuote. Se vi fidate del modesto parere di chi scrive, riempite piuttosto quelle del Teatro Tor Bella Monaca dal 9 al 14 dicembre 2021 e pure di corsa, oppure come direbbe la mia adoratissima zia casertana, tanto per rimanere in tema d’infanzia e di testo: “mo-mo”.