
Siamo al Piccolo Bellini, a Napoli, comodamente seduti, nella raccolta sala, di fronte a un muro: perché è lui, il muro, l’assoluto protagonista dello spettacolo Glory Wall: Rocco Placidi e Leonardo Manzan sono i talentosi Autori e performers di questo spettacolo – o non spettacolo – che scrissero per la Biennale Teatro di Venezia del 2020, “su commissione”, perché il direttore artistico, all’epoca Antonio Latella, dopo il successo del loro Cirano deve morire – che vedremo, sempre qui al Bellini, ad aprile – nella rassegna del 2019, propose il tema per un lavoro: la censura. E aggiunse pure l’esortazione a “sentirsi liberi”, non sappiamo quanto, tra ingenuo o beffardo, fosse nel suo tono.
Il muro è, dunque, l’ovvio protagonista di uno spettacolo teatrale sulla censura, perché occupando tutto il boccascena impedisce ogni possibilità di comunicazione tra ciò che si svolge sul palcoscenico e la platea, una censura che potremmo definire pervasiva e totale, se al mondo le cose andassero come sempre nelle previsioni, poi grazie al cielo non sempre è così, anzi. È un muro grezzo e biancastro, quello che vediamo, e che vedremo colorarsi d’ogni possibile colore, porta ancora i segni e i solchi della cazzuola, ha una superficie butterata e tormentata come quella lunare, con i suoi “mari” e i suoi “crateri”.
A luci in sala ancora accesse ci viene proposto – sentiamo il ticchettio di una macchina da scrivere mentre le frasi vengono proiettate, ovviamente, sul muro – una sorta di prologo sul senso stesso di mettere in scena un tema come la censura, di fare cioè uno spettacolo sul paradosso intrinseco di fare uno spettacolo sulla censura senza essere censurati e senza censurare, quando ti dicono sentiti libero di fare. Se la Censura, che a questo punto assurge al ruolo di semidio onnisciente e onnipresente, si sentisse sul serio minacciata e sbeffeggiata reagirebbe, evidentemente, censurando lo spettacolo, per cui quello spettacolo non lo vedresti. Il pubblico appare divertito dalle gag e dai calembour, anzi il gioco di parole, a cominciare dal titolo, è un po’ la cifra stilistica di questo lavoro, più volte si ribadisce il concetto dell’impossibilità di parlare di censura e si incita il pubblico a reagire, tanto che a un certo punto, vista l’inanità della platea, si annuncia la messa in scena – metaforicamente – in alternativa, di Casa di bambola, ugualmente senza gran successo, in verità: l’unica vera chance che rimane, allora, è autocensurarsi, perché questa è l’unica forma di censura praticabile, oggi, in Italia.
E tu capisci che è perché, certo, l’Italia è un Paese libero, dove non c’è la censura, ma forse, come vedremo, la frase ha implicazioni maggiori di quel che sembra, come tutto lo spettacolo, del resto. Quando poi le luci in sala si spengono lentamente, ti accorgi della funzione di quei “crateri lunari” sulla superficie del muro: sono dei buchi, sorta di fori che permettono di vedere al di là, il primo “tappo” vien fatto saltare e dietro il muro, attraverso il buco, intravedi una bocca femminile. Insomma, si mette in scena un glory hole, il sesso attraverso il buco, il buco del sesso, chiamatelo come volete, la possibilità di fruire, in completo anonimato, di svariate e variopinte e fantasiose prestazioni sessuali, che vengono ampiamente e dettagliatamente descritte dalla bocca che parla, che poi è quella di Paola Giannini, che in qualche modo ci guiderà per tutto lo spettacolo.
Alza le mani sul ritmo che incalza / se in teatro è da tempo che non ti si alza. / La fantasia ti risveglia un’idea, / scegli se far sesso con Nora o con Medea. / Sfoglia il catalogo della vagina, / stasera si concede anche Mirandolina!, il rap del glory hole ci incita a riempirla, quella bocca, ma nessuno – ci scommettete? – si alza dal suo posto, dopo un po’ si conclude – nel frattempo sono comparse altre bocche a dialogare con la prima, e qualche braccio, interamente guantato di lattice rosso acceso (sono di Giulia Mancini e Alessandro Bay Rossi, oltre ai già citati) – che il glory hole non funziona, meglio passare al glory wall, forse il muro della gloria avrà più successo con questo pubblico un po’ letargico, magari qualcuno tra gli astanti, se possibile, sarebbe tanto gentile da salire sul palco ad accendere una sigaretta.
Perché nel frattempo una sigaretta è comparsa su un trespolo ai lati del boccascena, non si va avanti finché un volenteroso non si alzerà dal suo posto e andrà ad accendere la sigaretta, “aspirata” voracemente dal muro, mentre il fumo esce da un altro buco: è una cosa viva, questo muro, un essere dalle molteplici bocche e braccia, che si rivolge direttamente a noi, un po’ passivi, com’è giusto che sia. O no? Nel frattempo due mani sbattono a terra una copia di Casa di bambola – a Ibsen avranno fischiato le orecchie stasera – mentre altre due lasciano cadere a terra alcuni pesanti volumi, il fardello della cultura, in tutta evidenza.
E naturalmente ci sarà una spettatrice caritatevole che, opportunamente incalzata, quel volume caduto andrà a raccogliere, sollecita: è un libro di storia dell’arte, si cita Cennino Cennini, umanista rinascimentale di Colle Val d’Elsa che ci ha lasciato un ponderoso trattato sulla tecnica artistica e sull’affresco in particolare, arte di dipingere i muri – per l’appunto – di mille colori. Il tutto è una scusa per introdurre il discorso sull’arte censurata: “interpretati” dalle solite mani vengono riprodotte, con grande inventiva, devo dire, grandi opere d’arte censurate oppure opera di pittori che sono stati vittime di censura. Si va da Il figlio dell’uomo di René Magritte a Flower Thrower di Banksy, da La Liberté guidant le peuple di Eugène Delacroix a La creazione di Adamo di Michelangelo, da Fiato d’artista di Pietro Manzoni al Concetto spaziale di Lucio Fontana, un percorso di grande suggestione e di notevole ironia.
E, così traccheggiando, arriviamo, in questo itinerario drammaturgico così particolare, al Cimitero del Grandi Censurati, sempre guidati dalla voce pervasiva di Paola Giannini e dalla mano che scrive sul muro: in tutta evidenza quel cimitero siamo noi, il pubblico, scopertamente si parla di platea di tombe ben allineate e divise, un po’ dantescamente, in modo commisurato al “peccato” commesso, in prima fila i grandi censurati che perirono per opera della censura fino agli ultimi posti, che son di quelli che si sono rifiutati di usare l’asterisco per indicare la molteplicità dei generi.
Ma stasera faremo come il Poeta, andremo a penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, e interrogarle: si levano dalle loro tombe tre anime perdute, quella di Pasolini, di Giordano Bruno e di De Sade, tre grandi censurati che vengon fatti parlare grazie a dialoghi proiettati sul muro, le frasi vengon lette da malcapitati scelti a caso tra il pubblico. Cerca di intromettersi in questo dialogo tra lo scherzo e il grottesco anche Gesù ma viene tacitato in quanto personaggio di fantasia, finché non interviene, a sorpresa, Albano Carrisi, non ancora defunto, in verità, ma con valida patente di censurato per i suoi trascorsi di fan della Russia di Putin e dunque vittima della censura ucraina.
Offre il suo vino di Cellino San Marco, il cantante, e qualche panino al prosciutto, e tutto finisce in gloria – siamo o non siamo al glory wall? – con un bel karaoke cantando tutti insieme Felicità di Albano e Romina. In verità c’è, alla fine, un epilogo, costituito da una “intervista”, fatta dalla solita voce e il solito braccio, munito di microfono, all’Autore e regista dello spettacolo, anzi al suo avatar, un pene di gomma che intravediamo attraverso il solito buco: l’intervista, sorta di invettiva sul teatro nel nostro quotidiano, esplicita il senso dell’operazione, anche se da po’ si era capito come il vero tema della serata non fosse la censura, bensì il teatro, e in particolare il modo di far teatro in Italia.

Perché magari ci fosse una censura, magari il teatro fosse così importante da preoccupare il potere al punto da censurarlo: è marginale, invece, il teatro, non attraversa più le strade delle nostre città, è chiuso in una nicchia ben protetta e ben munita, non può dire nulla a chi si occupa, invece, del dramma quotidiano di vivere. Anzi, quel contemporaneo ammantarsi di eroici furori che appartengono ad altri, artisti di un glorioso passato, è ipocrita cura, null’altro che vantarsi di coraggio altrui, scontare sulle loro spalle le nostre mediocrità. Cosa volete che gliene importi, alla censura?
Metter in scena Pasolini, oggi, Pasolini osannato da tutti, a destra e a sinistra, Pasolini amato dal potere imperante – una specie di repellente ossimoro – è rendere un pessimo servizio a Pasolini stesso, è profanare la sua memoria. Perché il teatro non scandalizza più nessuno, non c’è più nulla di sacro nel teatro, a parte il teatro stesso, oggetto di una vuota liturgia che diventa rito stanco e ripetitivo e oltretutto noioso, l’autocensura diventa allora parte del processo creativo, è stimolo alla creazione artistica ma anche peccato originale di cui soffre il teatro, oggi. E allora tutto quello sbrilluccichio, come direbbe Pirandello, tutto quel vociare, quell’insistito nonsense, quello scadente pornografare sopra la righe, perfino il karaoke nazionalpopolare di Albano e Romina non è solo sarcastica e provocatoria critica al teatro, nella disperazione che trasmuta in riso nevrotico, diventa esso stesso esempio di teatro vivo, che agita i problemi, che entra nella vita.
Il muro, di per sé sinonimo di chiusura, archetipo stesso del rifiuto e del rigetto, diventa invece, allora, a sorpresa, breccia, tramite, apertura, i buchi non servono solo a farci intravedere qualche aldilà oltre la quarta parete, il palcoscenico non è più il luogo dove gli attori fanno i fatti loro e noi voyeur li osserviamo più o meno interessati alle loro sorti da quest’altro lato, il muro apre un dialogo tra palcoscenico e platea, penetra le nostre coscienze, ci permette di godere, godere dell’ignoto, del caos e delle domande a cui non sappiamo rispondere, per dirla con le parole degli Autori.
Talentuosi Autori ai quali tuttavia sommessamente raccomanderei di evitare proprio momenti di “teatro” come l’intervista/invettiva finale: se il gioco è valido, se la pazziella vale la pena di essere giocata – e in questo caso, salvo qualche inevitabile sbavatura, lo è certamente – perché sentire il bisogno di spiegare, di esplicitare per filo e per segno quanto si ha in animo di dire? Il teatro – qualunque teatro – ha tutti i mezzi per esprimere da sé quel che ha da dire, non c’è bisogno che l’Autore ce lo ri(dica) alla fine a parole sue, altrimenti sorge il sospetto che le cose non siano del tutto chiare, che chi il teatro lo fa non si senta del tutto in sintonia con chi, da questa parte della quarta parete, ne fruisce, che ci siano, insomma, fraintendimenti, in questo dialogo che dovrebbe essere appassionato e sincero, il timore che possano insorgere equivoci.
Soprattutto, può voler sinistramente insinuare che quello che è stato detto con il teatro – con i mezzi e la sostanza del teatro – abbia necessità di qualche altra cosa per esprimersi compiutamente, qualcosa che viene a bella posta travestita da teatro, imbellettata, anche se provocatoriamente con un pene di gomma, qualcosa che non è teatro, perché indica solo se stessa, mentre teatro è menzogna dichiarata, dove la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna, sempre allude a qualcosa d’altro, mai a se stesso.
Questo finale, allora, toglie un po’ al resto dello spettacolo – o non spettacolo – che tuttavia aveva in effetti dimostrato, nulla proclamando e tutto trasformando, nulla indicando e tutto alludendo, di come sia possibile metter in scena qualcosa, oggi, in Italia, che sapientemente possa incrociare le nostre strade, che riesca a dire qualcosa alle nostre vite, che metta un muro in scena solo per dimostrare come sia possibile renderlo trasparente e superarlo pur senza romperlo in mille pezzi. Una cosa strana che si chiama teatro.