Molte citazioni e rivelazioni, cose assurde per il Teatro dell’Assurdo di Dipartita finale

Dipartita finale

[rating=3] Un letto enorme con sopra un uomo che dorme. Gli appariscenti orecchini da donna contrastano col suo vestito maschile. Ai piedi del letto un giaciglio con un altro uomo disteso. Un vecchio, l’unico in piedi, si muove senza pause, va avanti e indietro all’interno di questa catapecchia rattoppata. Così si apre lo spettacolo “Dipartita finale” al teatro Arena del Sole di Bologna, di e con Franco Branciaroli, con Gianrico Tedeschi e Ugo Pagliai, oltre a Maurizio Donadoni.

“Sollevami un po’ le palpebre!”, l’uomo sdraiato non è in grado di fare praticamente niente senza il suo compagno: il riferimento ad Hamm con il suo fedele aiutante Clov di “Finale di Partita” di Beckett (citato anche nel titolo stesso) è da subito evidente. E anche lo stile lo ricorda: “tu hai dormito?”, “No. […] Mi fai sempre la stessa domanda” “e tu mi dai sempre la stessa risposta”. Il tempo pare immutabile, “da quanto tempo mi sveglio in un buio così?”, “da sempre”.

L’aria che si respira è indubbiamente quella del Teatro dell’Assurdo, dove la claustrofobia è palpabile: fuori c’è il niente o la distruzione, soltanto in quel posto ci sono gli ultimi superstiti della razza umana, emarginati da tutto. “Il supino quanto ha detto che abbiamo ancora aria?”, la persona sdraiata ai piedi del letto pare avere tutte le risposte, ma ovviamente se le tiene per se e, nel momento in cui parla per bocca del vecchietto iperattivo, l’uomo a letto non può fare a meno di addormentarsi di nuovo.

Da mangiare non manca, “da un chicco è ricresciuto tutto […] il grano non finirà mai”, la loro esistenza è condannata appunto al sopravvivere in questo limbo che non può avere fine.

Le citazioni ad altri spettacoli sono pressoché infinite: “Quando dormo che fai?” “Ho le visioni” “e cosa vedi?” “un albero secco che camminava […] un’intera foresta che cammina” sembra Shakespeare nell’atto V del Macbeth, per passare alla scena dell’uovo e della gallina, enigma che appassiona i filosofi fin dalla notte dei tempi, fino ad arrivare alla morte che gioca a poker con il vecchio iperattivo, citazione illustre del film di Bergman.

Mentre il Teatro dell’Assurdo insinua nello spettatore milioni di dubbi senza dare alcuna risposta, invitando così alla riflessione su cosa si sta vedendo, qui si tenta di arrivare sempre alla conclusione, e forse è proprio questo che affossa maggiormente lo spettacolo: il supino pare sia un extraterrestre immortale, dato che non ha più bisogni terreni, “è caratteristica degli immortali non andare più di corpo”, sempre in procinto di svelare la sua verità, creando molte aspettative. Ma poi, come in una celebre piece di Ionesco, la sua dissertazione è incomprensibile, farfuglia di astronavi lontane, di universi ancora da scoprire, ma niente che sia di aiuto agli altri. Nel suo racconto si registra e si riascolta (vedi “nastri di Krapp” sempre di Beckett) e poi uccide la morte, a cui non era rimasto più nessun’altro da uccidere.

“Lui è stato anche noi, potrebbe aver vissuto la vita di tutti, allora non è nessuno”

Tutte queste citazioni e soprattutto rivelazioni aggiungono solo caos al caos, non fanno riflettere lo spettatore sulla condizione umana ma spiegano quello che dovrebbe essere inintelligibile, sfiorando anche in alcuni casi il trash. Eppure il cast è veramente stellare, con un ottimo Pagliai che primeggia di poco sulla bravura del 96enne Gianrico Tedeschi, nel ruolo per niente facile dell’amico metallico e un po’ robotico. Spettacolo né Assurdo né commedia, né carne né pesce, purtroppo non convince appieno, pur avendo innumerevoli spunti di riflessione.

Dipartita Finale_ ph.Alessandro Fabbrini

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