
[rating=3] L’emozione che non t’aspetti, l’estetica insistita e ricercata della contaminazione e dei linguaggi: tutto questo è Kiss & Cry, lo spettacolo che apre il Napoli Teatro Festival qui al Politeama: mani che danzano – ma sarebbe meglio dire che amano e vivono – in un mondo ricreato a misura loro, sono il centro della performance di Michèle Anne De Mey e Jaco Van Dormael. Moglie e marito, lei è danzatrice e coreografa, creatrice con Anne Teresa de Keersmaeker della compagnia Rosas, che appartiene ormai al mito più che alla storia e direttrice del centro coreografico Charleroi Danse, lui particolarissimo regista di Mr. Nobody, opera visionaria e insieme lucida come poche altre, purtroppo mai distribuito in Italia, e del più recente Dio esiste e vive a Bruxelles.
Così, lo spettacolo delle mani che danzano, il ballo insistito e sinuoso delle articolazioni, il rincorrersi inesausto delle luci e delle ombre, sono l’essenziale e fertile fonte della narrazione e, insieme, al tempo stesso, di commovente poesia; e, se nell’istante creativo in cui si genera, l’immagine delle mani protagoniste, inserite in un mondo fantastico e tuttavia dotato del chiaro e sereno nitore della realtà, viene proiettata sul maxischermo che occupa lo spazio scenico, il pubblico, nello stesso medesimo istante, assiste pure alla costruzione meticolosa del set teatrale: si crea, dunque una sorta di raffinatissimo metateatro che, obbedendo alla necessità di rompere l’illusione, di fatto, e paradossalmente, la (ri)crea e la rinforza, in un costante dialogo tra verità e pensiero, tra opacità e messa a fuoco, anzi, tra fuochi diversi e punti di vista che, a piacere, si rincorrono e vicendevolmente si soppiantano.
Si svolge così sul palcoscenico la storia di Giselle e degli amori suoi, attraverso una narrazione poetica fatta – non c’è dubbio – di carne e sangue (di carne e sangue sono infine le mani) ma, pure, d’un mondo lillipuziano ricreato ad arte: insieme delineano e descrivono una storia che ha i tempi d’una ballata e la potenza d’una evocazione. Attraverso le mani di Michèle Anne De Mey e Grégory Grosjean seguiamo infatti lo svolgersi d’una vita, ma è attraverso i loro corpi fasciati nella penombra di un “dietro le quinte” supposto, più che percepito realmente, è attraverso i sussurri accennati delle parole sulla colonna sonora che accompagna, sottolinea, modella la vicenda, che confusamente sentiamo, dietro il pure splendido incanto, la potenza e la verità della realtà. I cinque (come le dita della mano) amori di Giselle (donna ormai anziana che – come non notarlo — porta il nome del simbolo stesso del balletto romantico) sono amori sfortunati, conclusi nell’aspettativa eterna del treno giusto: realtà, fantasia – il primo amore che è solo uno sfiorarsi della mani (com’è giusto che sia) tra due ragazzi che s’incontrano sul treno durerà solo tredici minuti ma informerà di sé tutta la vita di Giselle – è difficile dirlo, di sicuro è un artefatto, come l’intera pièce, come l’angolo di finto salotto dove il pattinatore attende l’esito della sua prova, “kiss & cry”, appunto, che vive l’effimero spazio di vita che può dare la ripresa della telecamera.
Innumerevoli le citazioni e gli spunti sonori: da Händel a Vivaldi, da Arvo Pärt a Michael Koenig Gottfried, da John Cage a Carlos Paredes, passando per Tchaikovsky, Prévert, Ligeti, Gershwin; ma come non sottolineare la menzione dei rumori del bosco notturno, all’inizio, nel primo buio della sala, il canto degli uccelli un attimo prima dell’alba, in quello che a me è sembrato il commosso omaggio ai rumoristi che per secoli hanno servito il teatro e poi il cinema: mestiere antico, come antica è la tradizione da cui prende origine questo lavoro, pur se rinnovata e ipertecnologica. E se l’immagine (e la luce) ha un ruolo dominante, è facile intravedere, dietro e sotto la verità frastagliata e apparentemente discontinua delle sembianze, l’iperrealismo urbano di Hopper nella desolata stazione, nel treno disabitato che corre nella notte, la lussureggiante natura delle romantiche foreste di Friedrich, il profilo straniato e alieno delle città surreali di De Chirico, la frammentazione della luce puntinista nelle distese sabbiose alla Seurat, l’osservazione stupefatta ed estatica della luce marina di Turner: un gioco d’infinite matrioske, che celano l’una dentro l’altra il senso ultimo della loro apparenza e della loro sostanza.
Alla fine il sapore che ti lascia tutto questo, dopo gli intensi applausi che il teatro pieno ha voluto tributare allo spettacolo, è un dolceamaro sentire desideroso di spazi più vasti e rarefatti: perché, in fondo in fondo, tutto ciò che rende fascinosa e sorprendente ed emotivamente intensa la messa in scena, la stupefacente precisione dei tempi e degli attacchi, l’ironia, la surrealtà, il volo, le metonimie, le luci sfavillanti, le ombre opache e gelatinose, i traslati, finisce tutto ciò, alla fine, per ridurne di molto la profondità, come se l’universo intero si contraesse e si convertisse, per opera e virtù dei coniugi belgi, a bidimensionalità da stampa giapponese alla Hokusai, rinnovando, attraverso la moderna tecnologia, l’incanto di cui tanto tempo fa s’invaghì Van Gogh.