Le sedie di Ionesco secondo Binasco

Una produzione dello Stabile di Torino in scena al Vascello di Roma dall'1 al 6 marzo 2022

I due "vecchi" de Le sedie di Ionesco

Già di per sé lo spazio del Teatro Vascello a Roma, si presta a costruzioni sceniche suggestive, con le gradinate che in prima fila mangiano pezzi di palco dando una prospettiva visiva unica, se poi ci aggiungiamo l’estro e il genio tecnico di Nicolas Bovey, allora la magia del teatro è già entrata negli occhi degli spettatori ancor prima di iniziare. Un desolato faro pieno di polvere, ruggine, croste di ricordi e una torre di sedie vuote, due vecchi imbellettati da clown che recitano un passato morto o un presente fittizio, fantasmi, sedute vacanti e poi lei, quella finestra lontana che segna il tempo di un giorno o di una vita intera. Primo colpo d’occhio alle scene e alle temperature luminose di Bovey e siamo nella storia. Una storia senza senso, di ospiti evanescenti e parole vuote come le loro sedie, di due vecchi in attesa che non sanno più dirsi nulla e aspettano sia un favoleggiato oratore a comunicare per loro un messaggio fondamentale a quei resti di umanità sopravvissuta in cui noi, astanti post-pandemici, non fatichiamo a riconoscerci.

Il testo è per l’appunto Le sedie di Eugène Ionesco e la regia è quella di Valerio Binasco, che pennella col suo tocco inconfondibile ogni tratto del racconto, il quale prende magicamente corpo grazie a Michele di Mauro e Federica Fracassi, i due coniugi quasi centenari, l’uno Maresciallo d’Alloggio inghiottito nel baratro di una vocazione sempre fuggevole, troppo difficile da inseguire e l’altra Semiramide, che porta il nome della regina di Babilonia, ma ha l’aria di una bambola di pezza consunta. Due maestri della scena che si muovono piano, quasi a ritmo delle preziose mutazioni luminose, che sembrano segnare passaggi di poche ore o lunghissime epoche. Tutto distrutto, tutto finito in questo scenario apocalittico di mancati appuntamenti, dove forse solo lo squarcio finestrato nel vecchio muro logoro ci ricorda di un fuori ancora vivo, nonostante tutto. Un fuori dove il mare si increspa e srotola prepotente le onde contro quell’ultimo baluardo di vita e verso cui vogliono letteralmente gettarsi quei protagonisti fatalmente “morti” molto tempo prima.

Michele di Mauro e Federica Fracassi in auna scene de Le sedie di Ionesco, regia Valerio Binasco

“Perchè uno deve sempre diventare qualcosa che non è?” Si domanda il decrepito ufficiale, dovendo tristemente riconoscere sé stesso ma “dentro un altro”, un corpo, un’anima o solo un’ombra? Forse dopo “tutta questa vita” non è più importante e allora che giunga infine l’atteso Oratore, come fantasmatico Godot, o piuttosto novello Prometeo, latore suo malgrado del fuoco di una parola muta. Che si compia il gioco dell’incomunicabilità infinita, solenne, ineludibile. Cosa dire di un capolavoro drammaturgico che da principio su carta promette scintille? Binasco e Bovey, con le musiche di Paolo Spaccamonti su traduzione di Gian Renzo Morteo, gli rendono glorioso onore e ce ne restituiscono una visione eterea eppure concretissima.

Toccante e splendido il ringraziamento finale alla folla di spettatori dispersi, ospiti fino a non molto tempo fa inattesi, laddove il povero guardiano del faro si preoccupava piuttosto di domandare se fossero stati invitati gli ormai immancabili virologi. Proprio questi accenni al nostro tempo confuso e devastato, non troppo distante in fondo da quello in cui Ionesco scriveva, forse ancora suggestionato dalle immagini della Grande Guerra, popolata nei suoi sogni grotteschi di bambino da figure alla Brueghel e Bosch, è la corda più profonda che questo spettacolo riesce a toccare in ciascuno di noi. Tutta la potenza del testo esplode nella scena e quasi si sente il peso di quella piramide di sedie vuote alle spalle del Maresciallo, seduto e spogliato di un’ambizione che non credeva di dover possedere, esattamente come una delle creature infernali di Bosch: gargoille cinereo dalle cui scapole curve crescono enormi ali di legno fatte di una precaria catasta di sedie.

É dunque questo precario a vincerla su tutto e tutti, questo strano sentire così orribilmente contemporaneo che ci trasciniamo da sempre, inesorabile e fastidioso. Saremo prima o poi anche noi un posto vuoto, sembra volerci dire questo costrutto dell’assurdo, ma poi nemmeno tanto e allora forse è doveroso in questo cupo millennio di sentimenti assenteisti, sentirci invece pesanti e presenti, il più possibile, sempre e comunque fino in fondo.