
La notte del Sabato Santo è, per un cristiano, il momento più angoscioso della sua fede: lontano, ormai, dalla forte drammatizzazione dell’evocazione dei giorni precedenti, dall’ultima cena, dal pianto di sangue dell’orto degli ulivi, dalla passione della croce, rimane solo l’assordante silenzio del nulla, Dio è morto, è nella tomba, tale per sempre, tutto sembra in apparenza finito, l’universo è immobile nel tempo congelato dell’assoluto. Il credente sa, per fede, che Cristo risorgerà, ma non può evitare, soprattutto nelle ore più immediatamente vicine alla mezzanotte del sabato, il vuoto opaco e nero dell’animo, l’assenza irreparabile e sterile. In questa notte dell’assoluta distanza di Dio, nell’oscurità in cui, mancando la Parola, tante altre parole affollano la mente, nel buio della sofferenza e dell’abbandono, Fabrizio Sinisi sceglie – e come potrebbe trovare ora più adatta? – di mettere in scena il suo Guerra Santa, in questi giorni al Piccolo Bellini di Napoli, per la regia di Gabriele Russo, interpretato da Andrea Di Casa e Federica Rosellini: dramma della Parola e delle parole, già nella sua struttura formale si segnala per una sua precipua caratterizzazione.
Sceglie, infatti, Sinisi, una forma molto particolare di drammatizzazione, organizzando il densissimo materiale – quasi lava incandescente e dall’elevatissimo peso specifico, in cui ogni frase, ogni studiata espressione diventa, può diventare, oggetto di riflessione, citando a piene mani dai testi sacri, ma anche dalla letteratura e dal mito – in versi che si condensano e si raggrumano intorno a sei monologhi tra due soli personaggi. Non si può parlare di dialogo, in quanto le lunghe esposizioni non prevedono interruzioni, sono più che altro lunghe perorazioni, narrazioni, ricordi e rimostranze, arringhe e difese, presentati sotto forma di accusa/confessione – perché “ogni confessione è sempre anche un’accusa e viceversa ogni accusa è anche una confessione” – e offerti all’interlocutore e al pubblico in sala in modo apodittico, secondo una concezione di jihad – “guerra santa”, appunto – come “combattimento tra bene e male interno al credente” e del teatro come “luogo di un parlare assoluto – un rito, un sacrificio, un evento di trasformazione del senso”.
È evidente, dunque che molteplici sono i possibili livelli di lettura e di fruizione di un testo del genere, alcuni evidenti, altri meno, alcuni ben presenti all’autore e al regista, altri, invece, che possono derivare da suggestioni suscitate dal dramma in ognuno degli spettatori. Il primo, e più patente livello di comprensione e di accesso al testo è, in tutta evidenza, quello letterale: nella notte di un Sabato Santo, in una chiesa dell’Occidente sazio e disperato, entra una ragazza. Il regista Gabriele Russo descrive, con l’ausilio delle matite di Lucia Imperato, che disegna la scena, e di Chiara Aversano, i costumi, l’ambiente immerso nel buio della notte – del mondo e dell’anima – come delimitato e dominato da due enormi pilastri di cemento armato che tuttavia presentano evidenti lesioni, mentre a terra ci sono rovine, calcinacci, vistosi e preoccupanti segnali di un mondo in disfacimento, un universo ctonio che vive l’attesa di un’alba incognita che porterà, con la luce, vita o morte; la ragazza – sapremo dopo che si chiama Leila – indossa l’informe giaccone che è divisa d’ordinanza di qualsiasi giovane della sua età, da cui è praticamente indistinguibile, l’altro è un prete, più maturo, la giacca nera ne connota subito identità e funzioni.
Più che tipi psicologici, anche se conservano una qualche parvenza di identità realistica, i due personaggi ci appaiono da subito come contrapposti archetipi del nostro immaginario, sono il Prete e la Ragazza, il Cristianesimo e l’Islam, il Padre e la Figlia, l’Occidente e l’Oriente, o, se volete, l’Ego e l’Id, la Ragione e l’Emozione, perfino, al limite, Wotan e Brunilde, o tutto quello che la ricchezza e l’esuberanza del testo e la potenza della messa in scena può suscitare in ciascuno. “Sette anni fa ero qui”, dice Leila, era un’orfana ospite dell’istituto accanto alla chiesa, sette anni prima era fuggita per arruolarsi nei jihadisti e ora, tornando, “tutto sembra diverso e questo ci fa rabbia, sembra un tradimento”, perché noi cambiamo, i luoghi ci sopravvivono ma non restano uguali, cambiano anch’essi: dove ora c’è un parcheggio c’era una grande arena piena di ghiaia, con le porte da calcio disegnate con la vernice rossa.
“Fu un’idea di Daniele la vernice rossa e tu fosti contento, dicesti: come nel Libro dell’Esodo mettiamo un segno rosso sugli stipiti così l’angelo non si fermerà, passerà oltre questa casa e se ne andrà”. Daniele è un altro ragazzo, anch’egli ospite dell’istituto, molto caro ad entrambi, scopriremo, evocato più volte dai due personaggi, convitato di pietra in questo serrato scontro, Daniele con cui Leila è scappato, Daniele che fa onore al suo nome che evoca il giudizio di Dio, Daniele “non rise” e non dormì per due o tre notti, continuando ad immaginare “l’angelo dello sterminio fermo alla nostra porta”… “non gli sembrava giusto che alcuni dovessero morire e altri no”, che Dio era mai questo, che permetteva “che i figli morissero per le colpe dei padri al posto dei loro padri”? È per le vostre colpe che siamo andati via, per questo vostro Dio inutile e ingiusto.
“Forse hai ragione Leila, forse le vostre colpe ricadono ora tutte su di me”, il senso di colpa diventa evocazione, si materializza in un ricordo orrendo d’inutile terrorismo, un episodio accaduto poco prima che i ragazzi decidessero di andarsene, di punto in bianco, senza un saluto, senza una parola: “quella notte vi vidi… tu e Daniele eravate sotto il faggio, tu non mi rispondi, scappi via, Daniele invece no… mi fissa con una rabbia indicibile… dà fuoco alla corda… quando il dormitorio comincia a bruciare… corro dentro e tutto brucia… ho evacuato il dormitorio… ma due per la paura si erano nascosti nell’ultimo bagno e io non li vidi… quando li recuperammo erano neri e pieni di crepe come un terreno lavico, gli occhi vuoti e cavi”. Il racconto dell’omicidio si fa rimorso e tormento, il prete non li denunciò, in qualche modo obliquo divenne anzi complice dei due, proteggendone l’impunità, per amore, certo, ma le vie dell’inferno, sia sa, son sempre lastricate delle migliori intenzioni.
Il dio della ragazza jihadista – cui Federica Rosellini impresta corpo e sangue e anima, tesissima ed emozionata come lo sarebbe l’autentica Leila, in un crescendo che sa di rabbia e di rancore, nutrito di dolore e sofferenza – tutta piena di una sua grazia e passione che è quella dell’adolescenza, intrisa d’emozione e sogni d’eroiche gesta, è il sanguinario moloch che sempre esige l’altissimo prezzo del sangue dell’innocenza, “il sangue è inevitabile e la morte è inevitabile, Dio è inevitabile, Dio non è un oggetto di fede, una scelta, Dio è l’Inevitabile”.
Il dio del prete – che ha la faccia che sa d’inquiete mansuetudini acquisite a caro prezzo di Andrea Di Casa, quel modo di fare un po’ così, tra l’impaccio e l’intensa partecipazione emotiva che è troppo grande e potente per trasparire, la intuisci da quel trattenuto spasmo delle mani, l’aggrottarsi più profondo della fronte in una smorfia di delusione e amor tradito – è tuttavia l’ormai pallido simulacro del Dio dei viventi, del Cristo che rovescia i potenti dai troni e rimanda i ricchi a mani vuote, il prete è tuttalpiù uno psicologo/assistente sociale che si compiace del fatto che, dopo l’incendio, il dormitorio è stato ricostruito più grande, inevitabile che i figli siano contrapposti ai genitori, inevitabile la responsabilità dei padri delle colpe dei figli, il “Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” trasmuta nel dio che “non è buono” e “non è cattivo”, è semplicemente “pazzo”, un dio per il quale “le colpe dei figli ricadono sui padri”, un dio per il quale la verità, lungi dal render liberi e liberanti, “ci rende infimi e cattivi, ci rende miserabili, la verità ci rende terribili”.
E i padri hanno certo le loro colpe, e i figli le loro ragioni, come sempre da quando esiste il mondo, ma ogni volta la sensazione è che qualcosa si spezzi, alla fine, e che questa generazione sia insieme la prima e l’ultima, il principio e la fine, l’alfa e l’omega e che questa sia veramente la mezzanotte della Storia. E certo, poi, son tante e troppe la ragioni di rivendicazione dell’Oriente verso l’Occidente, fin dai tempi di Medea la barbara oscura che, tiranneggiata e vessata e umiliata dal colto e chiaro Giasone, ne uccide i figli innocenti.
Grande è la tentazione di fare tabula rasa, cominciare da capo, buttare tutto il marcio alle ortiche e dare un nuovo avvio al mondo, bisogna poi vedere cos’è il buono e cosa il cattivo, ci hanno pensato in tanti, in fondo, e le camere a gas e i forni crematori son lì proprio a memoria di questo, la bomba che Leila si riprometteva di far esplodere in chiesa il giorno dopo la prenderà il prete, in questo Götterdämmerung delle perdute occasioni, lei come Brunilde s’immolerà “splendente” sul corpo morto dell’eroe Sigfrido/Daniele, mentre il Prete/Wotan nel consesso degli dei trascinerà il Walhalla nelle fiamme eterne del nulla. La luce accecante è già accesa, ci sembra di vedere, evocato in trasparenza, l’Angelus Novus di Klee e Benjamin, “gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, Angelo della storia con le ali rivolte al passato, spinto irresistibilmente verso il futuro da un furioso vento di tempesta, mentre le colonne della chiesa crollano e un cumulo di rovine sale sempre più.
E tuttavia la citazione finale, affidata alla voce di Leila, apre ad una diversa speranza, ad uno spiraglio di vera redenzione, come Elpis rimasta giù, in fondo al vaso di Pandora: perché quando già la lama del sacrificio brillava pronta in alto, quando già, in nome del dio oscuro e inevitabile, il Padre era pronto ad versare il sangue del Figlio, quando il Figlio già aveva accettato di diventare capro espiatorio del peccato del mondo, prendendo su di sé le colpe di tutti, ecco che l’Angelo dello sterminio, l’Angelus Novus della storia si trasforma in Angelo della giustizia e della misericordia, ferma la morte e la mano di Abramo, arresta la catena perversa del sangue, restituisce la vita ad Isacco, apre una vera prospettiva di redenzione, la notte è finita, la luce è ormai quella del giorno di Pasqua, della vita che vince la morte.