
Sarebbe stato contento, Adelmo da Otranto, posto che sia esistito in altro luogo e in diverso tempo che quelli della mente d’Umberto Eco, di vedere la realizzazione di queste Scene da Faust, tradotte da Fabrizio Sinisi, che Federico Tiezzi drammatizza e dirige per il Teatro Metastasio di Prato, messe sulla scena del Teatro Mercadante di Napoli ieri sera.
E, posta vera la stessa condizione di supposta e ipotizzata esistenza, avrebbe, allo stesso modo che nel famoso romanzo, suscitato le ire di Jorge da Burgos: immerge, infatti, Tiezzi, le sue figure viventi, umani o spiriti, animali o vegetali che siano, in un aereo e trasparente medium fatto di pura e tersa e fredda luce bianca, che per nulla appanna o sfoca o confonde i nitidi contorni loro, rendendoli al meglio, esaltandone l’assoluta centralità, nella luce di Dio, come in un perfetto Medio Evo visto da un occhio che ha conosciuto la passione romantica ma che vive oggi nello sguardo ironico del disincanto contemporaneo.
Come le perfette miniature dipinte da Adelmo negli sgargianti colori d’un secolo che poi sarà chiamato a torto oscuro, risaltano, sul fondo chiaro della pergamena occupando tutto lo spazio, lasciando alle cose, agli oggetti, alla natura, pochi astratti segni convenzionali, così pure gli abitanti di questo mondo immaginato da Tiezzi con la complicità delle matite di Gregorio Zurla, vestiti nei non colori del bianco, del nero e di tutta la scala visibile dei grigi, si muovono nell’assoluto candore gelido di questo universo astratto e tagliente in cui una sedia, un letto, una panca, sono essenziali simulacri che ripetono semplicemente un teorico e postulato modello, chiuso, con ogni probabilità, supponiamo, nell’inaccessibilità del mondo iperuranio delle idee.
Così si dipanano le tredici scene più i due Prologhi della prima parte del Faust, in cui si scorre, come in una rassegna ad usum delphini, tutto l’universo mondo conosciuto sotto gli occhi esterrefatti dello scienziato Faust e compiaciuti del demone Mefisto, la conoscenza e la giovinezza perduta e ritrovata, la stupidità e la saggezza, la storia e l’idolatria, la forza dirompente e assoluta del desiderio.
Così, il Prologo sul teatro tralascia l’oziosa discussione sul dualismo tra ispirazione e vita e tra poesia e intellettualizzazione per dare sul serio un senso all’essenza stessa del teatro, travestito sotto l’ironica ricerca del coup de théâtre nell’inane tentativo, da parte di un gruppo di giovani seduti in cerchio, di far levitare l’attore interprete di Faust, che sta in centro, salmodiando nenie dal sapore orientale: non riuscendo l’esperimento, ben si potrà mettere in scena Faust. Perché il teatro, sembra suggerire Tiezzi, questo, per l’appunto, è: come diceva l’eduardiano Campese, capocomico de L’arte della commedia, vere strade e piazze appartengono al cinematografo, lì magari sarebbe stato possibile che Faust levitasse, agli spettatori del teatro, invece, può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna, l’impossibile non succede per davvero, ma, pur senza poterlo vedere con gli occhi, occorre aver fede che accada sul serio. Raccomandazione che, crediamo, realmente collocata in prologo al prologo, ora consente di mettere in scena Faust partendo dal Prologo in Cielo.
Qui, nella dimora di Dio, dove arriva Mefisto a tentarlo, Michele (Alessandro Burzotta), Gabriele (Nicasio Catanese) e Raffaele (Ivan Graziano) sono rappresentati come Shemhazai, arcangelo caduto e pentito del Libro di Enoch, che si fermò per l’eternità a testa in giù tra la terra e il cielo, avendo paura d’affrontare Dio per il suo peccato. Salmodiano, gli angeli, le visibili e palpabili magnificenze d’un Dio che appare all’occhio umano come uno specchio rotto, che rimanda un’immagine sfregiata ridotta in pezzi, è cieco il potere divino, perché la sua immagine si è fatta uomo, il volto del Dio vivente è la creatura stessa, terrore amoroso, come gli antichi dicevano, è contritum speculum che non riflette alcuna immagine – se non la Sua, la creatura Sua – che viene evocata in un sussurro: “Conosci Faust?”… “Il mio servo”: come il profeta che gli uomini chiamano “il Secondo Isaia”, Dio lo chiama ‘ebed, “Servo del Signore”, non c’è necessità di dire altro, perché “Es irrt der Mensch, solang er strebt”, “L’uomo sbaglia finché vive”.
Del resto Mefisto tutto questo lo sa bene e lo sa da sempre, è creatura – seppur tutta diversa – dello stesso creatore dell’uomo, condivide con il limitato essere terrestre ben più d’un attributo, si ritrova costituito della stessa sua pasta, è, in qualche modo, il suo doppio, essenza dissonante della stessa persona, il suo alter-ego o, se volete, utilizzando un diverso linguaggio, il suo inconscio, il suo Id.
Ecco che allora il cerchio si chiude, al disforico Faust, giunto alla fine della parabola della sua esistenza, dopo aver studiato tutta la vita “filosofia, giurisprudenza, medicina”, e perfino “la teologia”, la vita e la cultura e la sapienza tutta devono proprio apparire senza senso: tutti i colori del mondo sembrano ormai all’occhio del disincanto di Faust come fusi nell’unica possibile candida e algida somma delle loro essenze, assoluta assenza che ci appare bianca e sterile, sterili sono le panche e le sedie e i tavoli che riflettono splendenti d’acciaio la loro perfetta e inutile asetticità, sterili le tute bianchissime dei servi di scena in maschera e occhiali sterili, sterili e vuoti nel loro immacolato candore i libri fatti di pagine bianche che piovono dal cielo e da cui Faust, eludendo l’ineffabile Wagner (Dario Battaglia), trae una fiala di veleno che qui trasmuta, modernamente, in pistola.
Solo le campane di Pasqua, con i cori dei bambini di Mahler e i personaggi da operetta in redingote e bombetta, piccoli Magritte in libera uscita domenicale sul palcoscenico della surrealtà, potranno distoglierlo, almeno momentaneamente, dai suoi propositi suicidi, fino all’arrivo di Mefisto.
Può, allora, chi siede in poltrona in platea, assaporare il piacere godurioso e segreto del dialogare del Faust della smalizia – lo rende, quell’eloquio, Marco Foschi, straniato, astratto anch’esso fino al disincanto, compiaciuto di parole che vengon fuori quasi a fatica, come affette da una qualche disfluenza verbale che gli affligge l’eloquio – col Mefisto dell’ironica malizia di Sandro Lombardi – che gioca a fare il buon diavolo, così in apparenza bonario quanto velenoso e malevolo in sostanza – calembour delle parole e delle frasi, mutuo riconoscersi e mischiarsi nel reciproco scambio delle espressioni e delle intenzioni, diventa d’un tratto Faust il demone che tenta Mefisto, è lui che pretende la goccina di sangue a suggello d’un pezzo di carta, non sai più chi tenta e chi è tentato, chi è il furbo e chi l’ingenuo, chi dei due l’altro imbonisce con frizzi e lazzi.
E poi, se la tentazione dell’amore si traduce nell’immagine eloquente d’una sessualità – genitalità, anzi – senza veli e metafore, come in quella courbetiana che ci ricorda quale sia l’origine del mondo, quella dell’eterna giovinezza s’affida al filtro, anzi alle quattro mani d’una scimmia (Fonte Fantasia) – imitazione ridicola e grottesca della potenza e del miracolo divino – che grazie alla chirurgia estetica trasformerà il pensoso medico in belluino animale da monta, la faccia sostituita da una maschera di silicone priva di umane fattezze, la voce ormai roca, fioca, rotta, il gesto impedito, a scatti, un’impressione generale come di deformità oscena e idiota, una trasformazione che molto ricorda quella in Mister Hyde del Dottor Jekyll, male e bene non sono che facce della stessa medaglia, albergano in noi, guidano insieme i nostri destini e le nostre scelte.
Se ne accorgerà Margherita, che ha carne e sangue di una struggente, a tratti commovente nella sua disarmante ma nobilissima semplicità, Leda Kreider, se ne accorgerà fin dall’inizio, nel giardino di Marta (Valentina Elia) o mentre lavora all’arcolaio, quando riconoscerà l’amor nascente per Faust alle note di Schubert cantato a cappella, metamorfosi dell’impossibile suono, liquido, evanescente, purissimo nella sua trama esposta, vivisezionata e (ri)composta come tutte le musiche di questa vera e propria tragedia in musica, smontate e rimontate con la curiosità del bambino che fa a pezzi la sveglia per capirne il funzionamento.
Il desiderio, allora, obliquo e difforme patire il mancar delle stelle, diventa il vero motore di Faust, il sentimento oscuro, cioè, generato dal peccato, che poi è omissione, amputazione, impotenza, ciò che porta al delitto, all’ossessione, alla morte. Desiderio sessuale, certo, ma desiderio, soprattutto, e imperioso e brutale, del potere inesauribile e ambiguo dell’intelletto sulla natura, di comprenderla, di vincerla, di violentarla.
Vive, Faust, così, immerso in un mondo algido e terso perennemente scisso tra la folle risata della scimmia e la disperata sua voluttà, un mondo in cui, sola illusione di speranza, è, ed opera, la volontà di potenza. Incoercibile, rozza, inumana, ma, in certo senso, eroica, nel suo energico, atavico e primordiale legame alla terra e ai suoni della terra, che non si comprende se non in questa prospettiva di eternità.
Nulla è ottenuto, tutto è sprecato, l’appagamento del desiderio si tramuta sotto i nostri occhi in corpi ammazzati cinicamente, seguendo il ben noto déjà vu dell’eliminazione di chi consciamente o inconsciamente si oppone alla propria voglia, universo senza compassione in cui non c’è più salvezza, non c’è più orizzonte, non c’è più desiderio, tutto è consumato nel chiuso claustrofobico del non visto, la volontà di potere, suscitata dal desiderio, uccide in silenzio, trasformandosi in volontà di godimento.
Per questo muore la madre di Margherita, eliminata con la solita fiala velenosa, per questo – ammazzato a duello su una pedana formata da una croce di bare – Valentino (Luca Tanganelli), che di Margherita è il fratello, per questo morirà anche il figlio di Margherita e Faust, annegato nel sonno, per questo, alla fine, morirà pure lei, Margherita, la vediamo attendere l’esecuzione agghindata come una sposa col velo bianco funereo che sembra un sudario, eroina da melodramma resa pazza, forse, dalla delusione d’amore, una vita che s’infrange contro la banalità del male, una farlocca storia d’amore, la follia che salva, che preserva, che estingue per sempre. E forse qui, nella struggente e convulsa follia di Margherita, va cercato il senso e il segno di un possibile, contraddittorio, obliquo, salvifico riscatto.