Apologia di una famiglia contemporanea

Al Teatro Mercadante di Napoli, Elisabetta Pozzi protagonista di Apologia, di Alexi Kaye Campbell

È figlia della nostra inquieta e nevrotica contemporaneità, questa Apologia dell’inglese Alexi Kaye Campbell, in scena in questi giorni al Teatro Mercadante di Napoli, della sua spesso indecifrabile contraddittorietà, del dolore che a volte s’incarna in rabbia e paura, urlando alto e forte, più spesso si congela in silenzio, nel trascorrere lento dei giorni e degli anni. Una cena in famiglia per il compleanno della mamma è l’occasione per rivedersi in famiglia, ricordare sopiti ma sempre vivi pensieri che albergano giù in fondo, tentare un incontro che vada al di là della notizia fugace, epidermica, di un nuovo lavoro, di una nuova compagna.

Il primo ad arrivare è Peter, il figlio banchiere – che Christian La Rosa rende in doloroso bilico tra esigente freddezza e desiderio d’affabilità – a Londra in un break tra la Liberia e il Botswana, insieme alla sua nuova fidanzata, l’americana Trudy – Francesca Porrini dona a questo personaggio naturale freschezza e disarmante sapienza, in un connubio che incanta – conosciuta ad un incontro di preghiera – e questo, per la festeggiata, atea militante, è veramente sorprendente, e non manca di farlo notare alla stessa Trudy, che, invece, possiede l’ingenua e spiazzante semplicità che dona la fede sul serio vissuta.

L’altro figlio, Simon – cui Emiliano Masala sa conferire la giusta dose di inquieta rassegnazione nel rinnovarsi di antiche recriminazioni – arriverà più tardi, per ora è Claire, la sua bella fidanzata – è Martina Sammarco a disegnare splendidamente il personaggio, il cui comportamento apparentemente superficiale risente di antiche miserie e rivalse – a venire a cena, direttamente dal set della soap opera di successo di cui è protagonista: come spesso succede in queste occasioni, l’opportunità di un momento di serenità apre invece la porta a mal sopiti rancori, avvenimenti mai chiariti ritornano con tutta la loro carica emotiva, la paura e l’inadeguatezza d’un tempo ci mettono poco a trasformarsi in rabbia, la disforia che colorava di sé lunghe serate alla ricerca di senso diventa inquietudine, smania, sfocia nella stizza e nel veleno dei giorni e delle ore irrecuperabili.

La padrona di casa è Kristin Miller – la nevrotica, insopportabile, splendida protagonista è Elisabetta Pozzi, cui andranno alla fine lunghi, meritati applausi da parte del pubblico – che allo studio dell’arte, in particolare alla pittura di Giotto, ha dedicato la sua vita, consacrata da una “autobiografia artistica” da poco data alle stampe il cui titolo, Apologia, dà anche il nome all’intera pièce. In essa la rivoluzione artistica di Giotto, che riuscì a smuovere sistemi di vita e pensiero che sembravano immutabili nei secoli, vien descritta in parallelo alle proprie scelte di vita, al pari rivoluzionarie, a partire dal ’68 dell’immaginazione al potere e delle marce della pace in Vietnam, nell’ostinata, ineffabile, radicale convinzione d’aver in pugno l’occasione di poter cambiare il mondo.

Una persona sensibile, dunque, colta, di specchiate pubbliche virtù, cui tuttavia, ci accorgiamo man mano, in apparenza non corrispondono altrettante private qualità: è certo sincera, Kristin, nel suo rapporto con i figli e con le loro compagne, la sua franchezza non si ferma certo alle buone maniere, spesso appare, anzi, ad una prima occhiata, piuttosto dura e intollerante. Se è forte la critica verso Peter, businessman che insegue affari e soldi in giro per il mondo, per motivi diversi anche su Simon, che ha lasciato il lavoro inseguendo (da sette anni) il sogno di scrivere il suo primo romanzo, si appuntano i giudizi della madre, e poi anche sulle rispettive compagne, Claire, che butta via il suo talento di attrice – dimostrato anni prima in Casa di bambola – in produzioni televisive dozzinali di poco conto, a Trudy, la cui fede viene analizzata, passata al vaglio, criticata come adesione sentimentale, anacronistica, antistorica, senza accorgersi, probabilmente, che tanta ostilità nei confronti della fede altro non è che rivendicazione inconsapevole d’assoluto da parte di una vera e propria esperienza di vocazione, imperiosa, ineludibile, totalizzante, subita tanti anni prima da Kristin da parte dell’Arte, che l’ha chiamate a sé con la stessa forza con cui chiama un Dio.

E poi, certo, un sordo risentimento cova nei figli, un livore antico dovuto al fatto che, quando i genitori divorziarono, e loro erano ancora piccoli, la madre non fece nulla per ottenere il loro affidamento, ed essi crebbero col padre col cruccio, in fondo, che la madre, quella stessa persona che al mondo proclamava la rivoluzione della proibizione di proibire, della realtà trasformata in desideri, pretendendo l’impossibile, poi l’avesse, di fatto, rifiutati. O, almeno, così essi la pensano, forse hanno ragione loro oppure ha ragione Hugh – memorabile la caratterizzazione di Alberto Fasoli – l’amico gay di sempre di Kristin, nel dire che essi “non sanno nulla”.

E forse è così, certo, ma un sentimento d’inquietudine vaga, di posticcia affettazione, di sintetica assuefazione ad un improbabile modello prende il posto dei sentimenti sorgivi, delle naturali emozioni. È questo, sembra suggerire per un momento l’Autore, il destino di tanti della generazione nostra, quella del ’68: una donna, certo, intelligente, che ha fatto dell’arte e della rivoluzione insita nel concetto stesso di arte il fondamento della sua vita, nella certezza di poter combattere e vincere ogni violenza, ogni ingiustizia, ogni stortura, si ritrova invece, facendo il bilancio della propria vita, più borghese dei borghesi tanto stigmatizzati in gioventù, portata a quel punto di non ritorno da una innumerevole serie di piccole quotidiane scelte che irreversibilmente l’hanno resa sorda alle altrui verità, incapace di scorgere nella concretezza dell’altro l’incarnazione dell’alto ideale che si era prefisso.

Sarebbe forte a questo punto il rischio di cadere nello stereotipo scontato e semplicistico dello snob sessantottino imborghesito, che Campbell è abilissimo, tuttavia ad evitare, non prendendo posizione e rifiutando il manicheismo di una soluzione troppo facile, nella dolorosa, doverosa consapevolezza di torti e ragioni che non stanno mai dalla stessa parte, di tristezze e magoni equamente distribuiti, come è la vita, come è la storia di ciascuno al di là degli schemi che ci creiamo.

La cifra della pièce, e in fondo la sua giusta chiave di lettura, diventa allora una rarefatta, inquieta e al tempo stesso placata, malinconica allegria, che è il gioco, la prodezza, la sfida dell’infanzia che si rifrange intatta nella tempesta consapevole e duttile dell’adulto e che, infine, lentissimamente s’allontana in un lunghissimo, prospettico piano sequenza capace di riassumere in sé il mondo, la storia, la vita. La felicità è lì, in fondo, basterebbe allungare la mano, un gesto per sconfiggere la morte che incombe con passi ovattati – non sa baciare, Kristin, non sa abbracciare – una carezza che potrebbe dissipare i dubbi di Simon, che infine arriva nella notte, una parola che potrebbe spiegare come mai, in un volume di grande successo come Apologia, celebrato come mémoire pubblica e privata dell’autrice, il nome dei figli non compaia per nulla: dimenticati, rimossi oppure talmente importanti da temere – come fosse contaminazione, profanazione – esporre l’amore per loro, piuttosto che tenerlo ben chiuso dentro il proprio cuore, al riparo e al sicuro?

Sì, è vero, i figli sono stati talmente segnati da questa non presente eppure ingombrantissima madre, che le loro scelte sono state compiute proprio in funzione antitetica a questa scomoda assenza, scegliere di servire mammona piuttosto che servirsi dei soldi, scegliersi compagne che sono l’esatto contrario di lei, di questa madre invasiva e anaffettiva al tempo stesso. E tuttavia, alla fine, proprio da Trudy verrà il gesto risolutore, l’invito a sapersi perdonare, ad accettarsi sapendo superare le proprie certezze per affrontare e sconfiggere inquietudini e paure.

L’accorta regia di Andrea Chiodi asseconda il ritmo dei dialoghi serrati, tradotti a perfezione da Monica Capuani, guida gli attori attraverso i complessi rapporti che l’Autore ha stabilito per loro, raggiungendo così l’invidiabile naturalezza, ricca di sfumature e di contraddizioni come la vita vera, che probabilmente era lo scopo di chi ha scritto la pièce. In questo, certo, è aiutato dalle matite di Ilaria Ariemme, che disegna i costumi, bel ritratto di famiglia contemporanea, e di Matteo Patrucco, che realizza la scena, tutta imperniata sulle sfumature chiare del legno della lunga credenza della casa, distese linee orizzontali che in modo evidente si richiamano al gusto della proprietaria, che fanno da pendant alle piattaforme su cui il mobile si appoggia, anch’esse orizzontali, lunghe e piane.

Tutto trasmette, nella scena, la sensazione di un quieto pomeriggio in intimità, dai pensieri lunghi lunghi che, lentamente, inesorabilmente, procede verso la sera, in questo aiutati anche dalle luci di Cesare Agoni, che coglie i personaggi nella loro intimità: viene in mente un quadro di Hopper, un’intimità rubata con voluttà un po’ voyeuristica ai personaggi, e quando, all’inizio e alla fine di ogni sequenza, si abbassa il profilo nero che ci restituisce la siluette della casa, oscura e opaca tranne la porta e la grande finestra a quadri che ci permette di scorgere gli abitanti all’interno, la mimesi è perfetta, tenera è la notte che avvolge i personaggi, lieve e illuminata di chiara e calda luce, come un levigato e tiepido autunno, l’attesa.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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apologia-di-una-famiglia-contemporaneaAPOLOGIA <br>di Alexi Kaye Campbell <br> <br>traduzione Monica Capuani <br>regia Andrea Chiodi <br> <br>con Elisabetta Pozzi <br>e con Alberto Fasoli, Christian La Rosa, Emiliano Masala, Francesca Porrini, Martina Sammarco <br> <br>scene Matteo Patrucco <br>costumi Ilaria Ariemme <br>musiche Daniele d’Angelo <br>luci Cesare Agoni <br> <br>produzione Centro Teatrale Bresciano – Teatro Stabile di Catania <br>durata 2 ore e 20' <br>in scena dal 28 gennaio al 2 febbraio 2020 <br>Napoli, Teatro Mercadante, 28 gennaio 2020