Io, Hedda Gabler

[rating=4] Una coppia di neosposi torna a casa dopo un lungo viaggio di nozze in giro per l’Europa, ma inaspettatamente ad accoglierli è una dimora austera e quasi lugubre, dove dominano i colori freddi del blu, turchese e del nero. Colonne nere e, sullo sfondo, una stanza creata a vista in cui troneggia il ritratto del padre di lei: il generale Gabler.

Hedda Gabler ora Tesman è la figlia del generale, arrivata alla trentina dopo aver frequentato per qualche tempo attivamente la vita di società, ha sposato senza amore Jorgen Tesman, giovane borsista di storia della civiltà per convenienza sociale. Jorgen aspira a diventare professore, ma viene turbato dalla notizia che a concorrere alla cattedra ci sarà anche il suo antico compagno di corso, il dotato ma sregolato Eliert Lovborg, antico amore di Hedda ora amato e ispirato dalla giovane Thea che per lui ha lasciato il marito. Hedda cercherà con alterne fortune di manovrare tutti coloro che le ruotano intorno, perdendo però irrimediabilemte il controllo.

Un ambiente soffocante, in cui l’unica finestra è fuori scena, nascosta da pesanti tendaggi blu scuro. La luce filtra, se ne intuisce la provenineza, ma non si vede, come in un quadro di Caravaggio e si posa maliziosa tra le pieghe del vestito di Hedda.

Hedda  la cerca e la rifugge al tempo stesso, proprio come ha sempre fatto con la vita. Tutta l’inquietudine, il tormento di questa donna sono in scena, nascoste tra quelle stesse pieghe del suo vestito, della sua anima. Annoiata dalla vita, che osserva, succhia affamata dai racconti altrui perchè è troppo vigliacca per varcare il confine delle convenienze sociali.

Hedda Gabler

“Ma cosa credi che dirà la gente Thea?” e nelle sue parole sembra quasi di sentire l’eco di quelle che Torvald dice a Nora. Una Thea, stesa sul divano  alle  spalle di una Hedda in poltrana, risponderà laconicamente che ora è  finalmente “autentica”. E sembra quasi di assistere ad una seduta psicanalitica di freudiana memoria, stessa impressione che si avrà quando ad essere stese in maniera simmetrica saranno questa volta entrambe le donne.

Una regia fedele al testo, che lavora sulla parola e sull’azione, che dirige con mano ferma e fa emergere prepotentemente tutta l’attualità di un testo in cui il protagonista assoluto è l’inconscio. Indaga, va a scandagliare il fondo, nonstante le acque siano perse e cerca di riportare faticosamente qualcosa in superficie, indicando allo spettatore che sul fondo c’è molto altro ancora.

Una Hedda (Manualea Mandracchia) magnifica, che con la plasticità del suo movimento e le sottili sfumature spesso ironiche della sua parola, è sempre credibile. Bravi anche il mellifluo giudice (Luciano Roman) il pedante marito (Jacopo Venturiero).

Hedda Gabler

Uno spettacolo in cui nulla è lasciato al caso e in cui si ha l’impressione di un lavoro di assoluta sinergia tra regia, testo, luci, scenografia e custumi: un puzzle completo in cui nessun pezzo è andato perduto.

E l’epilogo è all’altezza delle aspettative: il pathos, l’angoscia, il senso di soffocamento crescono, ma solo in Hedda, gli altri sembrano indifferenti al dramma che si sta per consumare. In un turbunio di pensieri che non la abbandonano e che sembrano quasi “risuonare” in scena. “Come tutto è ridicolo” “di solito ci si arrende all’ineluttabile”, uno è più forte degli altri: “non libera comunque”.

E quasi attutito si sente uno sparo in lontananza.

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