
[rating=3] La passerella bianca che rompe la quarta parete e invade la platea del Teatro della Pergola, stile prêt-à-porter, fa pensare ad una lettura contemporanea de Il giardino dei ciliegi (Livada de vişini) di Anton Cechov firmato Roberto Bacci con gli attori del Teatro Nazionale di Cluji-Napoca in prima nazionale a Firenze. Niente di più fuorviante. Quello che attende gli spettatori nelle 2 ore e 30 minuti, è un allestimento parco e minimale, che attinge al contemporaneo solo al limite dei due atti, con un finale sconcertante.
La commedia cechoviana, che oscilla tra la farsa e il dramma, verte sul ritorno di Ljuba, aristocratica decaduta, nell’antica proprietà di famiglia, nella provincia Russa. La casa ha un grande giardino di ciliegi, che Lopachin, un borghese arricchito, consiglia di suddividere ed affittare ai villeggianti per saldare i debiti dei fratelli, evitandone la perdita totale all’asta. Nella completa inconsapevolezza Ljuba, suo fratello Gaiev e l’intera famiglia continuano a condurre una vita irresponsabile e frivola, che li porterà alla perdita dell’intera tenuta, compreso il giardino, in favore di Lopachin. Il taglio degli alberi ne sancirà la fine.

La nostalgia, la memoria, l’amore, temi cardini del pathos che avvolge l’opera, fanno solo capolino nella messinscena di Bacci lasciando il posto a canti, fragore, valzer parigini e momenti surreali: un clima da piena vaudeville. Unicamente impressa nella quantità enorme di petali di carta, a evocare il ciliegio, che cospargono una scena visivamente suggestiva, la poetica rimane iconografica, artefatta, ed in sala, a differenza del fiore, non sboccia.
La spensieratezza confusionaria dei personaggi, fa perdere di vista il legame con il passato, con le radici e con la forza drammatica del testo, che nella seconda parte dell’opera prendono (almeno sulla carta) corpo e spessore. L’aristocrazia è disegnata fin troppo svampita, fatalista e bambocciona, tanto che nel momento della vendita del giardino, del taglio che recide il “cordone ombelicale”, la reazione teatrale degli attori, stride a tal punto da smarrire emozioni, realismo e stile. Senza mezza misura, come burattini, i personaggi crollano a terra. La commedia è finita, il naso da pagliaccio e la fisarmonica giocattolo rimangono in scena, così come il vecchio maggiordomo, antichi legami con un passato glorioso sepolto dalla polvere materialista della nuova borghesia e dal taglio dei viscioli (con motosega!).
Le valigie e le loro stazioni segnano i confini di una scena ben disegnata, diventando simbolo di arrivo e partenza dei personaggi, in una cornice illuminata dai colori della bandiera russa (bianco, rosso e blu), che porta in grembo la glacialità dei paesaggi sovietici. Gli attori rumeni, in eleganti costumi aderenti all’epoca, mostrano un buon bagaglio attoriale, con alcuni crolli d’intensità espressiva nel secondo atto, quando la burla si trasforma in dramma, il gioco si fa duro e l’energia sembra spegnersi. Di tutt’altro vigore fu un loro Amleto del 2013, sempre sotto la regia di Bacci (leggi la recensione).

Un giardino pallido, bianco come gli abiti dei suoi abitanti e trasparente come le tende chiare del fondale sul quale si annebbiano. Cammina leggero Roberto Bacci, lungo una regia candida, senza particolari slanci emozionali, che punta sul ricondurre il testo di Cechov a “casa”, incontro ad una commedia dal sapore agrodolce, dove il dramma risulta meno amaro, attutito dal riso e dalla spensieratezza. Una scelta che conduce da un lato ad alleggerire un’opera articolata e interiore, dall’altro alla perdita parziale di quella complessità e profondità tipica dei personaggi cechoviani. Cosa che al pubblico non sembra molto interessare, visto i calorosi applausi, dovuti anche alla presenza in sala della comunità romena che avrà potuto apprezzare appieno lo spettacolo (in romeno con sovratitoli in italiano).
Ci ricorderemo soprattutto di questo giardino per l’arrivo finale delle motoseghe, della loro scia fetida lasciata in sala e del coraggio (del teatro) nel farle passare vicino agli spettatori. Un brusco ritorno nell’oggi che cozza con il realismo di inizio secolo della pièce e che estirpa (ahimè) dalle nostre menti, la poesia dei colpi di scure che si abbatte sui ciliegi, scena ultima di uno dei capolavori del teatro del ’900.