
C’è un istante, nel teatro, in cui il tempo si incrina: è quello che precede l’ingresso in scena, quando l’attore resta solo con il proprio respiro e con i fantasmi che lo accompagnano. Prima del temporale abita proprio questa soglia, trasformandola in un racconto vibrante e intimo. Umberto Orsini, novantun anni portati con l’agilità di chi ha fatto dell’arte una forma di vita, lascia che la memoria diventi scena e che la scena si trasformi in mémoire, senza enfasi, sans fard.
Orsini e Popolizio costruiscono un dispositivo drammaturgico essenziale e lucidissimo: il camerino diventa spazio reale e camera mentale, un luogo poroso in cui i piani temporali si dissolvono e memoria, esperienza e finzione si mescolano. L’attore attende di entrare in scena per interpretare Temporale di Strindberg, testo di colpa, solitudine e destino, dove la tempesta non esplode mai davvero, resta promessa e minaccia. E proprio quell’attesa, quell’“incompiuto” strindberghiano, diventa la metafora perfetta: Orsini indugia prima della chiamata, sospende il tempo, e in quello spazio dilatato lascia che la memoria affiori con una leggerezza sorprendente.

Il racconto si apre come una valigia: quella vera, che lo accompagna da settant’anni in tournée, e quella simbolica dell’attore, in cui conserva trucchi, strumenti, e frammenti di un’esistenza dedicata alla scena. Riemergono il viaggio da Novara a Roma con ventimila lire in tasca, l’incontro inatteso con Orson Welles, la pensione economica, il provino per l’Accademia con L’uomo dal fiore in bocca. I compagni di viaggio, Corrado Pani, Virna Lisi, Rossella Falk, appaiono non come figure leggendarie, ma come presenze familiari, quasi domestiche. Un romanzo di vita restituito con grazia, senza nostalgie stantie.
Popolizio orchestra tutto con una regia di rara finezza, che evita ogni deriva melò e lascia scorrere il racconto come una “coppa di champagne”: leggero, brillante, grazie anche alla presenza di Flavio Francucci e Diamara Ferrero, attraversato da alcune punte di leggera malinconia. La scenografia di Marco Rossi e Francesca Sgariboldi, attraversata da fenditure luminose e immagini, dialoga con le proiezioni di Lorenzo Letizia e il disegno sonoro di Alessandro Saviozzi, componendo un paesaggio mentale più che teatrale.
Il vertice arriva con il monologo tratto dai Fratelli Karamazov: Orsini era Ivan nello sceneggiato Rai del 1969 e oggi si interroga su come lo reciterebbe ora. La risposta è un’epifania. Non una replica del passato, ma la rivelazione di un tempo sedimentato nella voce, nei respiri, nei vuoti. È un gesto attoriale di rara precisione emotiva, un frammento di pura arte.

Uno spettacolo che trascina il pubblico in un’emozione che resta anche oltre il foyer. Alla prima regionale al Teatro Manzoni di Pistoia, la standing ovation è spontanea e doverosa, riconoscendo la verità della scena e la grandezza discreta di chi l’ha resa possibile. Un eterno ragazzo con una sigaretta fra le dita, che riesce a far emergere il proprio passato in un gesto presente.
È questa persistenza, il modo in cui l’emozione non si chiude con il buio della sala, a fare di Prima del temporale non un omaggio, non un autoritratto, ma un incontro intimo e raro: quello con un uomo che guarda la propria storia senza indulgere, restituendola con la grazia di chi, dopo settant’anni di palcoscenico, non ha ancora esaurito il bisogno né il piacere di andare in scena.














