
[rating=4] L’interesse per la figura di Attila coinvolse Giuseppe Verdi in ricerche approfondite in merito alla tematica e alla definizione dei personaggi a partire dalla fonte d’ispirazione, la tragedia Attila, König der Hunnen del tedesco Zacharias Werner.
Il lavoro sul libretto, affidato a Temistocle Solera, si protrasse oltre il dovuto richiedendo l’intervento del già fidato Francesco Maria Piave, per gli ultimi aggiustamenti. Rispettando le varianti volute dal musicista si ottenne maggiore chiarezza, a scapito però dell’iniziale verosimiglianza.
La prima rappresentazione al Teatro La Fenice di Venezia, il 17 marzo 1846, non riscosse il successo immaginato ma ben presto il pubblico mostrò di apprezzare questa partitura, tenendola in grande considerazione.
Il ritorno di Attila a Bologna, dopo più di tre lustri d’assenza, trova la fondazione in piene forze per quanto attiene la realizzazione musicale dello spettacolo. Il versante visivo si avvale della collaborazione di Daniele Abbado e Gianni Carluccio. La regia concepita dal primo è parsa poco intimamente connessa con lo svolgimento del dramma: non solo la staticità risulta fuori luogo ma anche l’incapacità di far rapportare, con convinzione, i personaggi ricorda vetuste scelte.
Nonostante l’asettica ambientazione voluta da Carluccio, scene e luci soccorrono la scarsa dinamicità impressa all’azione. Le ambientazioni di Rio Alto e dell’invettiva di Papa Leone vengono illuminate ad arte e pure il contenitore ferrigno, nel quale si muovono gli interpreti, trova una propria forza narrativa.
I costumi tradiscono un’incapacità nella collocazione temporale che rischia di accrescere l’incoerenza della produzione.
La scelta di inaugurare la stagione lirica bolognese con Attila di Giuseppe Verdi mette l’accento sulle intenzioni artistiche del direttore musicale Michele Mariotti. La sua attenzione ai cosiddetti “anni di galera” ha già riportato sulle scene felsinee alcuni titoli rilevanti del catalogo verdiano. La concezione musicale di Mariotti poggia sulle solide basi di una formazione dagli ampi orizzonti. La lettura vibrante è sempre ben cosciente dei caratteri che muovono i singoli personaggi: tramite l’orchestra il concertatore tratteggia ciascuno dei ruoli con un’impronta personale e ben meditata. L’accompagnamento è forbito ma non privo di quelle zampate risorgimentali di cui Verdi ha cosparso la partitura.
Il controllo di dinamiche e agogiche assicura una tinta sonora assolutamente avvincente, grazie anche all’apporto dell’Orchestra del Comunale di Bologna in piena forma. L’impegno del Coro del Comunale, preparato da Andrea Faidutti, è lodevole per coesione e precisione, specie in una partitura tanto esposta.
L’atteso debutto di Ildebrando D’Arcangelo, nei panni protagonistici, all’ultima recita si è apprezzato solo in parte. A metà del primo atto, durante un ampio cambio scena, giunge l’annuncio dell’improvviso abbassamento di voce, con il conseguente avvicendamento di Riccardo Zanellato, impegnato con il cast alternativo. Di D’Arcangelo colpisce il timbro suadente e l’invidiabile controllo dell’emissione che i lunghi anni di frequentazione mozartiana e rossiniana hanno portato a piena maturazione. Ciò che traspare, nel pur breve intervento, è la visione introversa e meditativa del condottiero, reso umano e meno altero dal basso italiano. Zanellato, chiamato ad intervenire in uno dei passaggi più complessi e delicati dell’opera, il racconto del sogno, appare da subito padrone del ruolo. La figura del cantante ha un appeal scenico consono ad Attila, tanto per accuratezza del gesto, quanto per efficacia espressiva.
Non da meno la prestazione canora che rivela attenzione al fraseggio, omogeneità in tutta la gamma e personale aderenza ai valori con i quali Verdi definì l’unno.
Simone Piazzola, Ezio, domina appieno la temibile scrittura: nell’afflato dei mutevoli sentimenti, cui il generale soggiace durante lo svolgersi della narrazione, il baritono trova la propria chiave di lettura basata sulle sfumature e sulla musicalità di uno strumento attento agli accenti e ai dettami autorali. Nonostante la carenza di mezze tinte, Fabio Sartori è un solido Foresto al quale la lunga esperienza giova per un approccio sicuro e affidabile. La spavalderia di Maria José Siri è di buon auspicio nell’avvicinare Odabella. La parte, tutt’altro che comoda, evidenzia però più di qualche limite nella zona acuta dove compaiono tensioni frequenti e smagliature nell’intonazione. Per superare queste difficoltà, il soprano tende a forzare la linea di canto che perde compattezza, specie nei passaggi elegiaci come l’aria “Oh! nel fuggente nuvolo”. Si apprezzano la tempra ferina, la baldanza della sortita, in definitiva i tratti forti del carattere della donna aquileiese.
Nella pur breve apparizione come Leone, Antonio Di Matteo manifesta potenzialità cospicue, interessanti per l’età e per le prospettive che un colore di vero basso possono assicurargli. Gianluca Floris si disimpegna con discrezione nei panni di Uldino. Travolgente l’entusiasmo finale del pubblico per tutti gli esecutori.