
«Immaginiamo il nostro Sezuan anche attraverso le pagine che l’autore dedica alla Cina e al suo teatro. Ci immergiamo in questa ambientazione bizzarra e provocatoria ricorrendo sia alla fascinazione che agli stereotipi con i quali guardiamo a una cultura orientale che ci sfugge e ci somiglia […]. E ci ritroviamo in una terra di contrasti, di bianco e nero e accesi cromatismi, in un cantiere di palafitte solitario e sovraffollato, nel quale gli attori sono guerrieri di pace pronti a rapide metamorfosi». Così Elena Bucci e Marco Sgrosso nelle note di regia tratteggiano il loro L’anima buona del Sezuan, di Bertolt Brecht. Uno spettacolo capace di far dialogare in modo sottile e intelligente il teatro di Brecht con le istanze e le contraddizioni dell’Italia dei nostri giorni, attraverso una partitura scenica che sa raggiungere vette di grande poesia, senza mai perdere tuttavia l’ironia e la leggerezza.
Su una scenografia minimale, fatta di impalcature in legno, si affacciano le turbinose e variopinte figure che animano la pièce, con costumi dai colori sgargianti che evocano un’atmosfera orientale e maschere prese in prestito dall’italiana Commedia dell’arte. Sul palcoscenico, dove Brecht avrebbe collocato “l’orchestra a vista”, un musicista crea un tappeto sonoro intrecciando sonorità elettroniche alle note di diversi strumenti.
I personaggi si esprimono in un linguaggio che si muove su un doppio binario, verbale e gestuale; una sinfonia di gesti accompagna le parole di ognuno sottolineandone il carattere, e fornendo spesso una connotazione anti-mimetica e straniante alla recitazione.
L’incontro della favola orientale, scritta da Brecht e ambientata in un passato sospeso, con il mondo abitato dal pubblico, avviene fin dal Prologo; nelle scene corali una folla di abitanti del Sezuan solleva un confuso vociare che richiama alle orecchie dello spettatore i toni comunemente associati alla nostra idea stereotipata e preconcetta, della Cina, dei suoi abitanti e della loro lingua. Si crea così un gioco di sovrapposizioni e collisioni fra culture, o meglio fra i clichè attraverso cui leggiamo le culture altrui e la nostra. Ne scaturisce una narrazione che compie improvvise incursioni nel mondo a noi familiare, generando significativi corto circuiti. Ecco allora che fra gli abitanti della provincia del Sezuan, tra i quali i tre dei si affaticano a cercare un’anima buona, qualcuno parla con spiccato accento pugliese, qualcun altro è napoletano, e c’è persino un bolognesissimo “omarel”, che strascica le “s”, con grande effetto comico. Il poliziotto, naturalmente, è tedesco. A interrompere la narrazione, in stile brechtiano, ci sono canzoni: ma si tratta di canti popolari del sud Italia, che contribuiscono al continuo slittamento di tempi e luoghi.
Il richiamo a Brecht è senz’altro nella recitazione frontale, rivolta al pubblico, e nel lavoro sul gesto; il segno del drammaturgo tedesco permea lo spettacolo poi per la sottile ironia con cui si affrontano anche temi complessi. Sì, perché l’opera brechtiana, riscritta piuttosto fedelmente da Bucci e Sgrosso, si fa carico di quesiti di non poco conto: l’inestinguibile contrasto tra bene e male, acceso dai tre dei che scendono nella provincia del Sezuan a cercare un’anima buona, che si rivela ancora una volta insoluto. L’impossibilità di soluzione è espressa dallo sdoppiamento di Shen Te, la sola persona del Sezuan capace di compiere il bene, nel “cugino” Shui Ta, alter ego maschile della protagonista. La crudeltà e la fermezza del cugino sono però le uniche forze in grado di evitare la sopraffazione di Shen Te da parte della società, che vuole mangiare sulla sua generosità. C’è un’umanità fatta di commercianti, artigiani, affaristi, possidenti, una folla di approfittatori che cercano di vivere sulle spalle di Shen Te, stipati nella tabaccheria appena rilevata. La bontà d’animo, per non soccombere, ha bisogno di ribaltarsi nel suo contrario. I confini fra “bene” e “male” sono fragili, confusi e permeabili. Gli dei, in definitiva, hanno creato confusione e l’eroina positiva si trova costretta a camminare in bilico su una rete di intrighi, per mantenere in piedi un traballante equilibrio fra il proprio bene e quello altrui.
La narrazione dispiega tutte le forze che stanno alla base delle relazioni umane: amore, denaro, brama di successo, potere, bisogni primari. La regia di Elena Bucci è formidabile nel tratteggiare la trama di tensioni che muovono il dramma, mantenendo il racconto sempre in bilico fra l’ironia leggera e la tragedia incombente, dipingendo su una scenografia essenziale scene di grande poesia e suggestione: l’incontro fra la prostituta Shen Te e l’aviatore senza aereo Yang Su, sotto la pioggia, una pioggia che non fa rumore ma che tuttavia si avverte; il doloroso sdoppiamento di Shen Te in Shui Ta, protratto fino al tentativo di occultare la gravidanza e l’amore per Yang Su; gli intermezzi narrativi dell’acquaiolo Wang, un eccezionale Marco Sgrosso, che tesse il file rouge del racconto e si mostra al pubblico e agli dei suoi interlocutori quale emblema della mediocrità umana, sempre in bilico fra purezza e disonestà, in disperati tentativi di sopravvivenza.
È questo il ritratto dell’umanità terrestre che si dispiega davanti alle tre divinità: un purgatorio laico di individui voraci, mossi da bisogni primari o fame di successo, dove chi cerca di vivere secondo il bene finisce per essere sopraffatto.
Nel finale, il compito di trarre una conclusione è affidato al pubblico: «Una leggenda d’oro avevamo inventata, ma poi strada facendo in male s’è cambiata. Deve cambiare l’uomo o il mondo va rifatto? Ci vogliono altri dei, o nessun dio affatto? Presto pensate come ciò sia attuabile. Una fine migliore ci vuole è indispensabile».