“Immagina che in questo buio ci sia una luce grandissima!”

I piedi sprofondano nell’erba e nella terra mista a sabbia, alcune ombre si muovono tutto intorno, rimangono indistinte nelle tenebre quasi complete e nel rumore di acqua che scorre. Una berlina scura illumina il cammino, i fari aiutano a distinguere per un istante le persone, poi si ritorna al coprente buio, vero e proprio personaggio dello spettacolo “Quai ouest” in programma per il VIE festival a Bologna.

La location è molto particolare, ci troviamo in riva al fiume Reno, dove qualche anno fa le ruspe abbatterono un insediamento di immigrati rumeni. Lo spettacolo sembra ripartire proprio da lì, con una scenografia di mattoni rossi incastrati l’uno sull’altro, senza calcina, che costituiscono un muro posticcio e che sembrano le macerie scampate alla distruzione di allora. La berlina si avvicina e con i fari illumina questa muraglia arancione in modo suggestivo, come se fossero luci di navi in lontananza (il titolo alla lettera si potrebbe tradurre “banchina/molo ovest”). Dalla macchina discende un uomo e una donna, sicuramente benestanti, che stridono con la desolazione e con il buio di sottofondo. Lui ha deciso di suicidarsi e lei, la sua segretaria-mamma, si è ritrovata in questa avventura suo malgrado: mentre lei cerca di capire come tornare nel mondo civilizzato, lui è nel panico più completo, “non so niente, assolutamente niente”. Per arrivare al fiume, dove ha deciso di annegare, deve interagire con le persone del luogo e vincere le loro naturali diffidenze, “è venuto a toglierci l’acqua così ce ne dovremo andare anche da qui!”, “nessuno verrebbe qui disarmato senza un motivo”.

La contrapposizione fra i ricchi, vestiti di chiaro, futili, quasi dei bambocci, ed i poveri immigrati, gli esiliati, le persone che devono mercanteggiare su tutto, che usano il buio per restare anonimi, è forte: i primi sembrano gli unici ad avere possibilità di cambiamento, di andarsene da quel posto, gli altri galleggiano in un’acqua torbida, i loro affari e i loro sforzi sono mirati alla sopravvivenza, nessuna rivalsa, nessuna speranza, nessuna luce. E il ricco “è venuto per tutti noi”, i suoi averi, che ovviamente non gli servono più dati i suoi propositi, vengono spartiti tra gli astanti, che mercanteggiano, giurano, si barattano orologi e gemelli in cambio di favori, tramano uno alle spalle dell’altro. Assomigliano a tante iene pronte a contendersi la carogna.

Il testo è molto bello e, senza pregiudizi, racconta la storia di questa famiglia di immigrati che si è trasferita lì da molto tempo, tanto che i figli non conoscono altro posto che quello, mentre la mamma si ricorda anche nel suo paese d’origine, “tiepido quando qui fa freddo”, una sorta di Eldorado, ed è l’unica a volerci ritornare: al ricco, in cambio del suo “aiuto”, non chiede soldi o carte di credito, cerca di ottenere i passaporti per andarsene. I suoi monologhi sono forti, rabbiosi, decisi e ruvidi, anche se urlati alla luna, totalmente inconcludenti, interpretati da una bravissima Olga Durano. Interessante il rapporto degli immigrati con le tenebre, che sono al tempo stesso rassicuranti e misteriose: due di loro che flirtano e mercanteggiano il loro amore, lo fanno sempre davanti ad una breccia nel muro che da sul buio pesto, corrono a destra e sinistra ma si trovano sempre lì davanti, l’oscurità li minaccia ma li attrae. Tra di loro non emergono tenerezza e affetto, solo uno scambio utilitaristico, e anche nella famiglia si nota più odio che amore, più risentimento che comprensione.

La luce del giorno evidenzia il loro status quasi bestiale, perché i ricchi possono vedere “il denaro anche attraverso la stoffa”, il figlio chiederà più volte alla mamma di fargli ombra, “ho la luce in faccia!”. Percepiamo questo fastidio anche noi, con gli occhi completamente abituati alle tenebre, non appena una palla illuminata spunta fuori dal muro e ci illumina. Questo enorme sole percorre tutto il muro, da un capo all’altro, per poi tramontare dietro di esso: una scena di sicuro suggestiva e ben creata, con movimenti degli attori molto puliti.

Il vero protagonista di questo spettacolo è comunque Acab, un enorme uomo di colore, che apre lo spettacolo quasi all’improvviso raccontandoci la sua storia: lui non è immigrato, abita lì da sempre. Tutti gli altri personaggi si rivolgono a lui, ma senza avere in cambio risposte, i lunghi monologhi diventano dialoghi solo con i suoi occhi, con l’intensità e la forza delle sue espressioni, ma non con la sua voce. Egli rappresenta le persone che ormai hanno perso ogni diritto, non sono più rappresentati, sono invisibili, non hanno più voce, mimetizzati nel buio. Qualcuno gli dice: “non fai abbastanza rumore per essere regolare”, anche da questo si può capire che è un clandestino, costringendolo come un topo a nascondersi nel buio ghetto della fogna. E’ lui a salvare il ricco dal suicidio, buttandosi nel fiume e riportandolo a riva, per poi denudarsi davanti al pubblico quasi a scusarsi di aver agito d’istinto per salvare una vita, preso letteralmente a calci dalla mamma, un vero fiume in piena. Ed è sempre lui che agisce nel finale, per niente prevedibile, che lascia lo spettatore in preda a mille interrogativi, a mille riflessioni.

Uno spettacolo davvero interessante questo messo in scena da Adriatico, che già aveva rappresentato con successo altri testi del famoso drammaturgo francese Koltès, morto prematuramente di AIDS a 41 anni. La suggestiva scelta della location, che ha avuto un peso rilevante nelle suggestioni sceniche, ed un cast di attori molto bravi, vestiti pochissimo e talvolta bagnati fradici (noi, a pochi metri da loro, abbiamo il plaid sulle gambe!) ha decretato il successo di pubblico di questo spettacolo.

 

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