
[rating=3] A pensarci bene le facciate delle case di legno che vedi sul palcoscenico aperto – siamo al Teatro Mercadante di Napoli e mi sono appena seduto sulla mia poltrona in platea per godermi questo Bugiardo goldoniano condito in salsa napoletana dallo chef Alfredo Arias – sembrerebbero, quelle assi consunte dalla muffa e dal tempo, tavole di palcoscenico, che, a perpendicolo, corrano corrano su su verso l’alto, aprendosi man mano in porte e finestre, e poi interrompendosi, spezzate, scheggiate in una dura e aspra irregolarità, per perdersi, alla fine, in un cielo indefinito.
Sul fondo, Venezia, lontana dai fasti suoi splendidi, chiude la vista, per ricordar dove siamo, certo, ma pure per trasmettere un vago senso d’inquietudine: non certo le luci e i riflessi di Giovanni Antonio Canal è quest’immagine, sembra invece restituire agli occhi tuoi una città immota ma in vigile attesa, metafisico paesaggio alla De Chirico, col Canal Grande plumbeo e piatto a funger da piazza. Un Campiello triste, si direbbe, la piazzetta del palcoscenico, afflitta da precoce malinconia, ora che è scesa la sera: e certo quel (solito) festone di nude lampadine – spente – che deciso e insieme molle taglia la vista della scena non sta là a trasmetterti, certo, allegria, ma vago e vano sentire, invece, d’abbandono e pianto. E tu stai lì, seduto sulla tua poltrona: le luci s’abbassano, lente, rimane accesa, come un piccolo faro, una solitaria lampadina al centro del palco, residuo legame con la realtà, con la verità, che poi vien portato via, e si spegne: signori, ecco il teatro, dove al canto d’una maschera in bauta e domino la realtà trasmuta in pura fantasia, dove la materia sono i sogni e si campa e si vive d’una speciale e prodiga menzogna, che ti fa trasfigurare, tradurre, tradire la verità per creartene un’altra migliore (?) o forse solo diversa.
Così, fin dalla presentazione della Compagnia che subito segue, “della Premiata Ditta Cannavacciulo”, che metterà in scena Il bugiardo, non puoi fare a meno di pensare che realtà e finzione vengon da subito abilmente e sottilmente mescolate, in un continuo entrare e uscire dal testo, e che quegli attori che via via ti vengon presentati, certo, lo sai, non sono “veramente” i membri della famiglia Cannavacciuolo, ma, pure, un legame parentale fra loro c’è, uno è il figlio di…, l’altra la moglie di…, e poi anche il figlio di…, e hai voglia a parlare di teatro nel teatro, qui i piani sono infiniti, come i mondi paralleli dei romanzi di buona fantascienza alla Heinlein, e tu sei chiamato a inseguirli tutti, come a cercar la tua personale porta sull’estate: perché, alla fine, le bugie del bugiardo sono attimi creativi che fanno scattare – tutti e ciascuno – piccole deviazioni dalla “realtà”: e l’asserzione di cosa sia “realtà”, “verità”, in teatro – sembrano dirsi Arias e il protagonista, Geppy Gleijeses, che non “interpreta” ma “è” Lelio Bisognosi e che ha contribuito a riscrivere e adattare il testo originale – comincia proprio dalla scelta del protagonista che, con ogni evidenza, non può avere gli anni del personaggio, fatti due conti, ma che tuttavia ben lo finge, in un continuo inseguire dei pieni e dei vuoti, delle parti studiate e di quelle che “sembrano” puramente improvvisate.
E così perdoni pure qualche gigioneria di troppo, quei giochi di parole da cinepanettone (“segreto” e “secrétaire”) e quelle astrusità un po’ incomprensibili qua e là sciorinate come profondi colpi di genio (i palloncini in mano ai personaggi, di tanto in tanto) e che non perdi tempo a interpretare. Ciò che conta, invece, e alla fine, è il teatro, l’arte della commedia, e come se pur questa fosse una Cantata dei giorni dispari, non importa poi tanto che l’argomento tratti scottanti denunce sociali (se lo chiedono gli attori, nell’intervallo – non era meglio, piuttosto che questa futile goldonata che ha ormai più di due secoli sul groppone, non era meglio affrontar cogenti argomenti come l’inquinamento globale, l’accoglienza dei profughi, la stepchild adoption?), perché il teatro ha già in sé la risposta e la sua logica: il teatro insidia gli apparati e le certezze acquisite, sconquassa il viver comodi e tranquilli, il sogno, ch’è sua sostanza, prima o poi è stato, è, o sarà, pure sostanza della vita.
Somiglia tanto, allora, Lelio bugiardo a Campese capocomico, e quella compagnia di guitti a questa della famiglia Cannavacciulo: impossibile distinguere realtà e menzogna, anzi, “a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna”. Geppy Gleijeses è un Lelio convincente, pur se fuori età, come detto, anzi, proprio per questo: non rifugge dalle guitterie, a volte, ma in quelle sa trovar la centratura del suo personaggio, che in qualche modo utilizza il giovane rampollo veneto cresciuto a Napoli per rappresentare una modalità della bugia e della menzogna che perde ogni colorito moraleggiante e bacchettone per (ri)creare una diversa patria in un altrove luminoso: non sarà certo un caso che la scena, che non cambia mai, grazie al sapiente gioco di luci teatrali, s’illumina quando entra lui, si stinge e scolora quando ne esce.
E se la luce – la luce del teatro – tanto illumina i bugiardi, essa manca del tutto a chi è invece totalmente invischiato nella materia opposta, la terra e l’oro della venalità: il dottor Balanzoni (l’eccellente Luciano D’Amico) non a caso è ritratto cieco, ed è in effetti l’alter ego speculare di Lelio, fenomenale la sua prima entrata in scena a guida di Pantalone (un ottimo e meditativo Andrea Giordana), esilarante memoria della Parabola dei ciechi di Bruegel; e poi l’affascinante Rosaura di Marianella Bargilli, la ben caratterizzata Cleonice coatta di Valeria Contadino, che interpreta anche Beatrice, il timido Florindo di Luchino Giordana (un altro tipo di bugiardo, pure lui), l’Ottavio risoluto e canterino di Mauro Gioia, per finire con Lorenzo Gleijeses che interpreta Arlecchino (servo di Lelio) e Brighella (servo di Florindo) con tal padronanza da poter per una volta dire che esser figli d’arte non è solo una medaglia d’appuntarsi al petto o una comoda scorciatoia, ma, evidentemente, possibilità d’apprender l’arte da così alta scuola: le maschere goldoniane son sempre l’anima popolare, il contrappeso alle leggerezze dei fatui, la risposta antiretorica, pacifica e antieroica alla stoltezza degli uomini reali.