
[rating=2] Attori in scena dietro una tenda trasparente muovono un uomo che sembra una marionetta. Hanno abiti che ricordano gli anni ’50. Lo colpiscono ripetutamente, provocandone forse la morte. Poi la scena si dissolve e improvvisamente compare un rullo che gira vorticosamente inglobando in sé una testa che cala dall’alto.
Buio e luce. E la scena si sposta in un bagno pubblico in cui una donna mentre piange, cerca affannosamente di lavarsi il viso, poi si accascia lentamente per terra. Ha un’emorragia, il sangue le cola giù dalle gambe lentamente, riversandosi sul pavimento. Emette suoni confusi misti al pianto, si sente distintamente un “10 pezzi”. Poi l’immagine di un cassonetto in una strada. Subito dopo la donna è in una questura: il commissario la interroga per sapere se il bambino che ha partorito sia vivo o morto e, nel caso, dove lo abbia messo.
Ma la donna è in preda ad un delirio mistico continua a dire che il figlio partorito è Mosè, l’unico in grado di liberare gli uomini.“E’ chiaro che non vedi che siamo schiavi…siamo vicini ad un nuovo inizio. Dobbiamo far tornare Dio indietro”.
La donna sviene e viene portata all’ospedale dove le viene fatta una risonanza magnetica. E proprio all’interno della macchina, inizia il suo sogno che la riporta ai primordi dell’umanità in una caverna dalla quale si intravede la volta stellata, che uomini e donne primitivi fissano con un misto di orrore e ammirazione. Forse guardando in alto cercano qualcosa, forse per questo una donna della caverna scrive sul muro – sipario un accorato S.O.S. Perché “cercare si deve, ma solo per perdere tempo. Perdere tempo è l’unica cosa che vale”
Lo spettacolo Go down Moses prende il titolo dal celebre spiritual degli schiavi neri d’America, che si identificavano con il popolo ebraico, in quanto preveggenza del loro ritorno in Africa. Il protagonista è un Mosè più vicino al personaggio descritto da Freud nella sua ultima opera, che al Mosè biblico dell’Esodo. Le sue vicende sono trasfigurate, dissolte in quelle di un bambino abbandonato, forse vivo, in un cassonetto di una qualsiasi città.
La regia di Castellucci punta a costruire una scena in cui viene volutamente messo in disparte il linguaggio verbale: si alternano immagini che sembrano istallazioni contemporanee, a suoni assordanti di macchine come quelli del rullo e della macchina della risonanza. Tutte le arti visive sono chiamata a raccolta, quasi a voler dire che il linguaggio verbale è spesso fonte di incomprensioni, mentre quello visivo non può ingannare.
E così si alternano frammenti visivi che tutte sembrano contenere in sé un unico messaggio: l’alienazione e la disperata solitudine dell’individuo che aspetta una divinità che non si manifesta, un individuo che si trova ad essere in esilio, non più da una terra come per gli ebrei, ma da sé stesso.
Un lavoro criptico e, in alcuni punti, autoreferenziale, che lascia allo spettatore l’arduo compito di decifrare i simboli di cui sono disseminate le scene, scene che a volte appaiono eccessivamente lunghe e complesse nella loro realizzazione. E così il messaggio è confuso e non arriva forse a sfiorare quelle corde umane che si proponeva di smuovere.