
Confesso e ammetto di non essere mai riuscita a vedere Saverio La Ruina dal vivo prima del 6 febbraio scorso. Quando spinta dal consiglio di un’amica sono andata in solitaria al Quirino ad assistere a Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria. Una confessione piena d’amarezza sia da calabrese che da amante del dialetto e in generale degli sperimentalismi linguistici a teatro. Per questo di fronte allo schiudersi di questo piccolo capolavoro, non ho potuto far altro che lasciarmi travolgere da tutta la potenza affabulatoria di La Ruina, con l’animo completamente spoglio. Ed è stato un bene assoluto. Lo spettacolo è lui.
Non c’è altro sulla scena al di fuori di una vecchia sedia e l’accompagnamento musicale del bravissimo Gianfranco De Franco (di cui scopro una discrografia eccellente non solo per il teatro). È così che il fondatore assieme a Dario De Luca della compagnia Scena Verticale e co-direttore sempre con De Luca di quel gioiellino di festival che è Primavera dei Teatri a Castrovillari, riempie occhie e orecchie come di una nenia antica. Un racconto a tratti crudissimo, ma in altri punti anche ironico, in cui la lingua di confine del Pollino calabro-lucano si è offerta alla platea del Teatro Quirino. È lì che Dissonorata è andato in scena il 6 febbraio 2025, a distanza ormai di 20 anni dal primo debutto.
Il pubblico romano ha accolto questo rinnovato incontro con calore e partecipazione, nonostante il testo fosse completamente in dialetto. Un dialetto di “viole e ortiche”, parafrasando il poeta Michele Pane. Pieno insomma sì di petali, dolcezza, poesia, ma anche di spine. E sulla rividità di quelle poteva dopotutto incagliarsi anche la mia stessa comprensione, che pure se di nascita romana, questa calata la sento in casa da una vita.
Ma non c’è stata alcuna barriera linguistica. Anzi il registro colloquiale di una piccola donna qualunque in un minuscolo paese del meridione d’Italia del dopoguerra produce piuttosto da subito una più acuta vicinanza alla parabola umana di Pascalina. “Ormai” diciottenne cammina a testa bassa, sviando gli sguardi maliziosi degli uomini, costretta ad attendere il matrimonio della sorella di mezzo, mentre lei, teme di rimanere zitella.

Saverio La Ruina la incarna nei gesti, nella voce, nell’umile “mantesina” indossata assieme agli zoccoli, perchè laggiù in Calabria non molto tempo fa le scarpe erano un lusso. È il racconto di un micromondo patriarcale intriso di ignoranza e violenza. In cui la parola stessa della protagonista è emblema di una difficoltà a esprimere sè stessi fuori dagli schemi prodotti da altri. Uomini altri, estranei perfino nella casa, padri-padroni, fratelli aguzzini, mariti sconosciuti.
Pascalina non sa niente della vita fuorché i comandi che le hanno imposto. Il duro lavoro nei campi, “i servizi” in casa, la devozione assoluta alle decisioni paterne. Può solo sognare un marito che le conceda la fragile libertà di alzare il capo da terra quando cammina. Ma sua sorella non si sposa e lei rischia di finire inacidita e sofferente a sospirare ai matrimoni delle altre, sotto le statue nerborute dei soldati fatti di corpi mai toccati. Allora cede, cede sotto la flebile promessa di uno sposalizio, in cambio della cosa più preziosa che possiede.
Sarà la sua condanna a un’escalation di violenza inaudita, unica via per lavare l’onta di tanto “disonore”. Un’ora di narrato fitto come un ordito, in cui La Ruina resta seduto sulla vecchia sedia dei ricordi. Eppure nell’immobilità riesce a sciogliere i nodi dell’esistenza “storta” di Pascalina. A raccontare al mondo quanto costa prendere una decisione, per la fugace gioia di una carezza. A riprova ulteriore di quanto la potenza della parola riesca a imporsi su tutto. Un testo splendido, un interprete eccezionale, incolla su di sè l’attenzione senza un attimo di cedimento, mentre il finale arriva piano col suo carico emotivo estremo. Dissonorata per quel che mi riguarda è diventato già un classico nello spazio (per me) di un’unica rappresentazione.
Lo ha preceduto Polvere e lo ha seguito La Borto, il trittico di Ruina dedicato alla violenza di genere, che mi auguro venga riproposto in più e più occasioni nella capitale. Anzi potrebbero figurarsi come eccellenti prove d’attore anche per giovani interpreti, desiderosi di misurarsi con una materia linguistica e drammaturgica complessa come questa. Una sfida niente male su cui testare il proprio talento. Dissonorata è un pezzo di teatro vero, autentico, transgenerazionale e transgender in grado di parlarci ancora e sempre della forza distruttrice del sopruso. Ma soprattutto ci ridorda il dolente cammino dell’essere fino in fondo sè stessi, della libertà che ci appartiene in un mondo dove tutto è precario e occorre rimanere come sentinelle in allerta, perchè per dirla con Tina Anselmi: “nessuna conquista è definitiva”.