Così è (se vi pare) il fantasma della verità

Al Teatro Bellini di Napoli è di scena in questi giorni "Così è (se vi pare)" per la regia di Filippo Dini

“Ho quasi finito la commedia in tre atti (parabola, veramente, più che commedia): Così è (se vi pare) – Ne sono contento. È certo d’una originalità, che grida. Ma non so che esito potrà avere, per l’audacia straordinaria della situazione.” Così Luigi Pirandello il 3 aprile del 1917 al figlio Stefano, prigioniero di guerra a Mathausen, scriveva della sua nuova creazione, e poi, il 18 di quello stesso mese: “a giudizio degli amici è la miglior cosa che io abbia fatto finora. Credo anch’io così. Non è difficile che la rappresenti Ruggero Ruggeri il prossimo maggio qui a Roma. È una gran diavoleria, che potrà avere veramente un grandissimo successo”.

Ruggeri alla fine rinuncerà, perché la sua compagnia, si scuserà, “è del tutto inadatta alla sua commedia”, e non aveva torto, costruita com’è, la parabola, come una macchina drammaturgica corale, con nessuna parte per la prima attrice e per il primo attore la tipica parte del raisonneur, non certo un classico protagonista. Sarà la Compagnia di Virgilio Tassi, invece, a metterla in scena, il 19 giugno, con grandissimo successo: Talli dichiarò che in più di 35 anni di palcoscenico non aveva mai assistito a una prima “più stranamente interessante di questa. Non so se t’ho detto che la parabola s’aggira sul valore della realtà. È tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza suo genero. Dopo il trionfo di Milano, il Talli stesso la porterà a Bologna, poi a Genova, poi a Torino, e nella quaresima dell’anno venturo qua a Roma”.

Così, la vicenda della famiglia Ponza, sfollata a causa del terremoto della Marsica in una non meglio identificata cittadina di provincia, suscitando le curiosità della “gente”, assurge a prototipo d’un certo modo d’intender la realtà e la verità, mistero destinato a rimanere tale, visto che, poi, in fin dei conti, ognuno si costruisce la sua, di verità, unica ed assoluta per ciascuno, per quanto valga, alla fin fine ciascuno è chiuso nella sua protettiva e distruttiva impossibilità di comunicare.

Siamo, in tutta evidenza, alle radici del pirandellismo: nel 1917, cent’anni fa, Pirandello ha cinquant’anni, è noto, ormai anche fuori dai confini nazionali, come autore di novelle e lui stesso non pensa certo a se stesso come drammaturgo. Ha scritto, è vero, qualcosa per il teatro, ma nel dialetto suo, Liolà, Il berretto a sonagli, cose che, in mente sua, considera probabilmente secondarie rispetto a quella che ormai ritiene la sua vera vocazione. Poi, viene la parabola, d’una originalità che grida.

E certo, nelle mani di Filippo Dini, regista e attore, il grido, anzi l’urlo, l’abbiam sentito pure noi, che giù in platea o nel palchetto nostro, qui al Teatro Bellini di Napoli, dove in questi giorni va in scena la parabola, avevamo in mente quel certo Pirandello la cui recitazione e regia tutta si basa sull’occhio vitreo e sul ragionamento beffardo e sussurrato, un po’ difficile immaginare si possa francamente ridere, piuttosto che amaramente sorridere a bocca storta, dell’umorismo pirandelliano, suppergiù la stessa sorte che, se ci si pensa, in fondo è toccata a Čechov che, convinto com’era di scriver vaudeville, si ritrova tutt’oggi sovente congelato sul palcoscenico in certe raggelanti messinscene da rabbrividire.

Qui il brivido c’è, ma non raggela per nulla, anzi contenta l’occhio e la mente e due ore e mezza passan via come bere un sorso d’acqua fresca, finalmente, dopo tanto stantio rosolio: scava, scava, Dini, seduto in scena nei panni del raisonneur Lamberto Laudisi, inventandosi una sedia a rotelle – evidente segno dell’artificiosa paralisi che ha colpito la nostra ormai malata borghesia – con cui aggirarsi, seminando dubbi e ripensamenti, per la monumentale e claustrofobia scena – disegnata da Laura Benzi – interno altoborghese in continua metamorfosi non trovando pace nei suoi continui réajustements, come dovesse di volta in volta riattarsi, quel mondo, alla bisogna dei demoni che lo abitano, suggerendo a tratti ora un tempio pagano ora un tribunale ora un teatro ora un sanatorio.

Così, le candide stanze della famiglia e dei suoi ospiti – che sembrano proprio non potersene andare da quella monumentale casa, un po’ come i partecipanti alla buñueliana cena de L’angelo sterminatore – diventano rifugio sicuro dal maltempo che imperversa fuori, sentiamo scrosci d’acqua e rombi di tuono, ma anche un po’ prigione, e tutta l’atmosfera, tra infermiere dal camice inamidato e camerieri equamente divisi tra il perfetto e rassicurante servizio e inquieti segnali di follia, a me tanto ricordava il sanatorio Berghof a Davos de La montagna incantata: riferimenti tutti che ci riconducono, in fondo, all’impietoso ritratto d’una società elegante, colta, potente, disincantata, che il tempo trova, senza remore, di correr dietro alla curiosità, che al nostro sguardo appare un po’ fatua, che si è creata intorno alla famiglia forestiera, traghettandoci dalla “normalità” della prima parte alla stramberia grottesca in bilico perenne tra risata e paura e che non riesce a cogliere, tranne che allo sguardo del raisonneur, la follia che monta, l’angoscia che sale, la fine che, istante dopo istante, si fa più vicina.

E riusciamo allora a cogliere come, sotto il pirandellismo un po’ scontato che ci hanno insegnato al liceo, l’uno nessuno e centomila, il volto e le maschere, sotto l’oliato meccanismo della relatività un po’ verbosa del ragionamento, ci sia il meccanismo del dramma ottocentesco, di cui Pirandello si serve, come d’un utile scheletro, per veicolare il pensiero suo, apparato macchinoso e appassionante fatto d’adulteri, tentati suicidi, colpi di pistola e di scena.

Poi, tuttavia, ancora più in profondità, riusciamo a cogliere – non sempre è così – l’umanità sottesa al dramma, l’anima, potremmo dire, che si cela sotto la maschera dei demoni che, neri, s’aggirano per la casa e la coscienza nostra, apportandoci inquietudine e irresolutezza: intravediamo il dolore eterno della solitudine, la condanna originale all’impossibilità perenne di comunicare, di rendere partecipi gli altri della verità. Che è sempre una e una sola, ma che, passando attraverso di noi, la carne nostra, prende il nostro colore e il nostro sangue, diventa ciò che noi vogliamo sia, fino a dirci, il fantasma della verità possibile, l’unica frase che può, legittimamente dire, quel io sono colei che mi si crede che, ripetuto come un mantra, chiude, senza risolverla, la parabola.

Con quel fantasma senza volto Dini, letteralmente, ci balla, durante la stupefacente, ineffabile, suggestiva metamorfosi del monologo dello specchio, costruita senza cambiare nemmeno una virgola del testo originale, ma rivoltandola tuttavia come un guanto, e che ci dà ragione della gran diavoleria di cui parla l’Autore, apparendoci il regista dietro un microfono da crooner; la sua immagine ci viene rimandata, frammentata, informe, mostruosa da specchi deformanti, mentre una voce femminile ripete suoni sconnessi, forse parole al contrario, forse verità troppo indicibili per esser comprese. Una scena da applauso in piedi, cui contribuiscono, di sicuro, in maniera decisiva, le luci magistrali di Pasquale Mari e le musiche scelte da Arturo Annecchino.

Ma, certo, tutti gli attori non sono da meno, non possono esserlo, in un’opera corale come questa, a cominciare dai due demoni in nero che riescono a far venire dubbi pure a noi che siamo al di qua della quarta parete, la signora Frola di Maria Paiato, così ben divisa tra dolcezza e remissività e fierezza e decisone, e l’energico, volitivo e doloroso signor Ponza di Andrea Di Casa; poi la famiglia, dagli abiti – disegnati da Andrea Viotti – chiari ed eleganti, che sempre più precipita nel marasma nevrotico della follia, dal volitivo padrone di casa Consigliere Agazzi, Nicola Pannelli, autoritario e risoluto, alle signore di casa, nervose e loquaci fino al comico, Amalia, sua moglie, Mariangela Granelli, e Dina, sua figlia, Francesca Agostini.

Ci sono poi gli amici, l’impagabile coppia dei coniugi Sirelli, Ilaria Falini e Dario Iubatti, sempre impegnati a battibeccare tra loro, e la signora Cini, un di quei personaggi destinati solo a contribuire a riempire la scena ma che, invece, nelle mani di Dini e dell’irresistibile Orietta Notari riescono a creare cinque minuti di autentica comicità, impegnati in un surreale dialogo sull’obiettività dei giorni della settimana e dei mesi dell’anno. Infine, ma non alla fine, il personale di servizio, i cui interpreti vestono però anche i panni di altri personaggi, l’inappuntabile primo cameriere di Giampiero Rappa che è anche il Prefetto in camicia nera, il folle secondo cameriere di Mauro Bernardi che diventa, poi, il Commissario Centauri, e, forse almeno simbolicamente, il personaggio principale, la solerte, inamidata infermiera, Benedetta Parisi, che è anche il fantasma della verità e, naturalmente, la signora Ponza, nerovestita come tutti i demoni, che compare in scena alla fine, grondante acqua per l’abbondante pioggia di quei tre giorni.

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cosi-e-se-vi-pare-il-fantasma-della-veritaCosì è (se vi pare) <br>di Luigi Pirandello <br> <br>con Maria Paiato, Andrea Di Casa, Benedetta Parisi, Filippo Dini, Nicola Pannelli, Mariangela Granelli, Francesca Agostini, Ilaria Falini, Dario Iubatti, Orietta Notari, Giampiero Rappa, Mauro Bernardi <br> <br>scene Laura Benzi <br>costumi Andrea Viotti <br>luci Pasquale Mari <br>musiche Arturo Annecchino <br> <br>regia Filippo Dini <br> <br>produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale <br>durata 2 ore e mezza circa <br>in scena dal 22 al 27 gennaio 2018 <br>Napoli, Teatro Bellini, 23 gennaio 2018