
Quella che state per leggere è una semplice recensione di Battlefield, in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 20 al 25 febbraio, che a molti sembrerà un vero e proprio sacrilegio, ma ammettiamolo anche gli dei, come la mitologia ci insegna, possono sbagliare e alcune cose non andrebbero fatte.
Il dio in questione è Peter Brook, considerato uno dei più grandi registi teatrali viventi, vincitore di importanti premi (il Tony e Emmy Awards, il Preamium Imperiale, il Prix, per citarne qualcuno), regista di oltre 70 opere (tra cui il Salome di Strauss che andò in scena nel ’48 con scenografia e costumi disegnati da Salvador Dalì), protagonista di una biografia tradotta in oltre 15 lingue, insomma uno che nella vita di cose buone ne ha fatte eccome.
Tra queste cose buone c’è stata per esempio nel 1985 Battlefield, la trasposizione teatrale del poema sanscrito di oltre 100.000 strofe Mahābhārata, opera fondamentale della letteratura induista, che Brook mise in scena in un mastodontico spettacolo della durata di 9 ore che ebbe un successo tale da essere rappresentato per due anni sia in inglese che in francese e in seguito adattato per una miniserie televisiva e per il grande schermo.
Va bene, 9 ore sembreranno tante ma comparate con l’enorme mole di versi, personaggi, intrecci e vicende da rappresentare questa diventa una durata del tutto accettabile e anzi adeguata.
Il problema sorge invece oggi, nel 2018, precisamente quando il regista inglese decide di rifare una versione dell’opera che per lunghezza è un suo ottavo, ovvero 70 minuti.
«Non è una ripresa e neanche un’operazione nostalgica ma, al contrario, un progetto che nasce dalla volontà di creare, nello spirito dell’oggi, una piéce molto essenziale e molto intensa, che tratta di qualcosa che ci riguarda da vicino» dice Brook in un’intervista, spiegando un ragionamento che nella teoria non fa una piega.
Prima di andare oltre è doveroso però accennare alla trama dell’opera, e “accennarla” è quello che fa anche lo stesso regista – direi in tono un po’ polemico -, il Mahābhārata racconta la storia della grande guerra che si combatte tra due rami diversi della famiglia Bharata, i Pandava e i Kaurava. I primi vinceranno ma solo dopo aver visto morire davanti ai loro occhi milioni di combattenti, un numero spropositato per l’antichità, degno dei grandi stermini di Hiroshima o della ormai perenne guerra in Siria.
Il parallelismo appare ovvio sin dalla lettura della sinossi, così come l’intento del regista di parlare di ieri per spiegare l’oggi.
La fase della storia che Peter Brook racconta è quella post-bellica che vede da un lato il rimorso del vecchio e cieco Dritarashta (Larry Yando), il più anziano dei Pandava e unico superstite della sua famiglia, e dall’altro il doloroso dubbio del vincitore, Yudishtira (Jared McNeil), se dopo una tale strage e una tale perdita di uomini si può davvero parlare di vittoria.
Bellissimo il dialogo tra il nuovo re e Krishna (Edwin Lee Gibson) che gli predice una nuova guerra in futuro dopo decenni di pace e alla domanda del sovrano se sarà una guerra che avverrà nel suo animo o sulla terra il dio gli risponde: “Perchè cambia qualcosa?”
Ponte tra le due figure è la madre di Yudishtira (Karen Aldridge) che convince il figlio a non rifiutare la reggenza e a chiedere anzi l’aiuto del vecchio sovrano Dritarashta per reggere un incarico così gravoso.
Da un tale esordio, che proietta immediatamente lo spettatore nella vicenda, trasmettendogli tutta l’angoscia e il dolore di quel risveglio su un mondo in cui “la terra è resa soffice da tutto il sangue che l’ha bagnata”, ci si aspetta un seguito all’altezza se non addirittura un crescendo di emozioni e coinvolgimento eppure quel che viene dopo è una narrazione frettolosa, scandita da continui salti temporali che non danno modo di soffermarsi e riflettere su quanto sta accadendo.
Anche i dialoghi, incastrati in metafore e aneddoti, si affievoliscono, perdono la loro carica originaria giungendo a volte anche ad apparire privi di un reale significato.
Bella la trovata di far interpretare ai quattro attori molti personaggi giocando semplicemente con una scenografia essenziale (opera di Thaomas Becelowski) e con delle sciarpe colorate riadattate ad abiti diversi di volta in volta (magia della costumista Oria Puppo), ma anche in questo caso la brevità dell’opera incide negativamente su un espediente che poteva al contrario rivelarsi interessantissimo, perchè con ritmi accelerati e salti temporali, qualcosa di tanto in tanto sfugge e i fili si ingarbugliano.
Del tutto riuscita invece è l’idea di tenere sul palco il maestro delle percussioni Toshi Tsuchitori, presenza fissa sulla scena a cui dona non solo melodia ma anche, con l’aiuto delle luci di Philippe Vialatte, un’incredibile e trasognata atmosfera.
Insomma, seppure è vero che spesso less is more in questo caso ci sarebbe stato bisogno di more e pur assecondando il desiderio di riscrivere la storia plasmandola sulla freneticità e l’incedere a scatti dei giorni nostri, Peter Brook avrebbe dovuto mantenere salde le redini del testo senza mortificarlo e comprimerlo in una veste per molti versi gli sta stretta.
Perciò pur riconoscendosi la mano di un maestro questo Battlefield 2.0 appare manchevole e non all’altezza della gloriosa “versione integrale” di trent’anni fa.