Autobiografia erotica dell’Aristide Gambìa che c’è in te

Al Piccolo Bellini di Napoli va in scena Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, di Domenico Starnone, regia di Andrea De Rosa, con Vanessa Scalera e Pier Giorgio Bellocchio

Parafrasando Sciascia diremo che ci sono parole, mezze parole, paroline, paroloni e male parole: le prime descrivono la realtà, le seconde l’allusione, le paroline e i paroloni, ciascuna a modo loro, modificano la verità a modo nostro. Le male parole, invece, le parolacce, le parole oscene che non entrano nella conversazione educata, quelle che appaiono, soprattutto nel dialetto, sguaiate e involgarite, sono, in fondo, le parole sfortunate, quelle che si devono sorbire l’onere di portare il peso che noi non reggiamo, i muli del vocabolario, umili, forti e asciutte: ha riparato, pertanto, Domenico Starnone, l’ingiustizia d’una esistenza negletta, rendendo queste espressioni colorite e nette e taglienti, protagoniste assolute del romanzo suo Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, checché se ne dica, un dei tentativi letterari certamente più originali degli ultimi anni, libro discutibile e discusso, complesso e faticoso, anche per il linguaggio che adopera.

E tuttavia la piena libertà espressiva del romanzo è solo funzionale alla descrizione dell’altrettanto totale libertà di coito di Aristide Gambìa, delimita e segna, seppure implacabilmente, il sintomo, non certo la causa prima della biografia sua, scandagliata – come si fa con il sonar, cercando attraverso risonanze la descrizione di un profilo – lungo il filo dell’esperienza erotica o, meglio, spesso francamente e singolarmente genitale: una miriade di donne, relazioni brevi o brevissime a null’altro riferibili se non alla stravagante chimica del sesso, incontri gracilmente intessuti solo d’un fugace furtivo fisiologico scaricar di umori.

Da quel romanzo lo stesso Starnone ha adattato una pièce teatrale, che è quella che vediamo in questi giorni qui a Napoli al Piccolo Bellini: del complesso affresco del testo letterario rimane – com’è anche ovvio – solo la prima parte, Una vecchia amica di Ferrara. Ma, anche di questa, si perde l’intricato rincorrersi per le vie di Roma e per affollate e maleodoranti corse in metropolitana, che costituisce l’ossatura, lo scheletro d’un incontro che si svolge in più fasi, come a dare il tempo alle cose, ai ricordi e alle sensazioni nuove, alla memoria di ieri e al desiderio dell’oggi di riposare, sedimentare, meditare la bramosia e il rammarico, distillarli piano piano.

Sono, invece, seduti ai due capi d’un tavolo spoglio, Aristide e Mariella, nella casa romana di via Istria di lei ma che lui crede – perché così gli è stato fatto credere – di Magda, l’amica a lui sconosciuta e inconoscibile, confinata nella stanza a fianco, presenza imbarazzante eppure eccitante traccia di corpo femminile, vestale d’un femminino oscuro e ignoto. Il buio nero intorno li isola e al tempo stesso li protegge, una luce cruda scende dall’alto imbiancando i volti e i corpi dei protagonisti restituendoli a noi come una sorta di calco di gesso, come in una foto in bianco e nero con troppo bianco, oltre la quale è possibile, volendo, immaginare Aristide e Mariella vent’anni prima, il loro primo incontro.

Inoltre, e non è cosa di poco conto, i due protagonisti – che hanno modo d’esercitare entrambi al meglio la difficile ma necessaria e complicata naturalezza che genera un simile linguaggio – che vediamo sulla scena, l’Aristide imperfetto, interdetto e voglioso di Pier Giorgio Bellocchio e la Mariella insinuante, emotiva e sfuggente di Vanessa Scalera, son di certo molto più giovani del Gambìa e della Ruiz del romanzo, non so se per scelta di Starnone o di Andrea De Rosa, che cura con la solita talentuosa professionalità e trattenuta misura la regia.

S’aggirerà l’età loro, infatti, intorno ai quarant’anni (riferiscono il loro precedente incontro a vent’anni prima), mentre i loro omologhi letterari viaggiano verso i sessanta, essendosi incontrati a Ferrara trent’anni fa: questo, in qualche modo, cambia le carte in tavola, rende, fra i due protagonisti, ancora possibile un qualsiasi esito alla loro storia, li fa più pronti, più vigorosamente reattivi, meno cinici, più disponibili, perché meno scleroticamente adattati alla vita, al cambiamento.

E, d’altra parte, si perde, dei personaggi, la malinconia del mite e piovoso autunno romano, la fase d’umore nero nutrita d’occasioni mancate, il rammarico irrisolto, come un rovello spento, il rimpianto languido di chi mette a confronto la sua esistenza, piena ma comunque ordinata, “con quella sfrenata dei protagonisti di certi libri della giovinezza, con il sogno di perdere i margini e sgretolarsi soprattutto nel piacere sessuale”, il demone meridiano che, spesso, a quell’età, esorcizza l’angoscia della morte ubriacandosi di vita, voltando le spalle al passato.

È da quel passato di rimpianti sfiniti che vien fuori Mariella Ruiz, anonima ragazza – allora – trastullo di un pomeriggio in un cinema di Ferrara, di cui Gambìa ricorda solo la pelle liscia della gamba, levigata sotto le dita, mentre le solleva l’orlo della gonna. Un contatto consumato solo nello spazio e nel tempo effimero e relativamente breve che passa tra l’erezione e la masturbazione furtiva e ignorata, tra la penetrazione affrettata e l’orgasmo consumato nell’istante che passa; e che ora torna, quella, chiede, con una lettera oscena, un appuntamento che non sarebbe rivedersi, dato che null’altro di lei ricorda se non quel fugace incontro di pelli e di mucose, ma un incontro nuovo, una sfida, in fondo, a ricostruire quel giorno di tanti anni prima.

Comincia così una minuta esplorazione del tempo provvisorio di quel passato incontro, una dettagliata, circostanziata, completa rivisitazione di quel che ho fatto, di quel che ho sentito, di quel che hai sentito, di quel che hai fatto: inevitabile ricostruire la propria vita, a partire di lì, ricominciando dal proprio apprendistato sessuale, mille particolari, persone, incontri, una vita intera filtrata attraverso il setaccio sottile del desiderio: quel che cola se ne va perdendosi nel nulla, la materia coagulata e raggrumata al di qua della trama fitta fitta siamo noi, o meglio ciò che ne rimane.

Così, la vita si (ri)costruisce attraverso l’incontro erotico, rimettendo insieme – per quanto possibile, tentando di farlo – le due parti dell’esistenza nostra, ricongiunte finalmente nell’espressione del desiderio orgasmico, come se la reciproca incomprensibiltà del maschile e del femminile potessero d’un tratto perdere il lato oscuro, parlassero ora un linguaggio infine comprensibile – quello delle parole del sesso nel proprio sguaiato dialetto, in un gioco che continuamente indaga continue allusioni risolvendole tuttavia in altrettante sottrazioni – per diventare così, attraverso la via genitale, intellegibili e perfettamente intuibili l’uno all’altra.

Celebra allora l’osceno finalmente l’inutilità della metafora attraverso la perfetta corrispondenza tra forma e oggetto del discorso, le parole non esprimendo più solo la forma del desiderio, ma direttamente la sostanza, la materia, la carne e il sangue e lo sperma, giungendo così, senza più alcuna barriera o mediazione, direttamente alla fisicità viva della propria vita: la parte che esprime il tutto, il sesso che dice la vita: “il gergo osceno aveva smesso la tonalità del gioco. Le parole avevano un calore spoglio, non segnalavano un imbarazzo, un nervosismo mimetizzati dalla sfrontatezza: erano interiezioni”.

Così il linguaggio, il dialetto, l’oscenità detta nel più turpe e puro dialetto, che si arricchisce di uno spazio immaginativo e ambiguo, insegue la memoria che cerca a tastoni la trepidazione d’allora, restituendo all’età matura l’esperienza erotica della vita, in un corto circuito che, senza alcuna intermediazione sentimentale, romantica, senza il soccorso d’alcuna levigata tenerezza – sono, infine, due persone adulte che non provano niente l’uno per l’altra – riesce a far quasi coesistere il tempo in cui tutto doveva ancora accadere con quello in cui, invece, tutto è ormai accaduto.

Ricordi sfaldati, detriti ammucchiati intorno a due o tre picchi importanti, gioco insperato di passato e presente, memoria di atti osceni che descrivono non tanto, non solo, una genitalità congelata in gesti antichi, ma che rinviano invece all’oscenità del non riconoscersi come persone, descrivono minutamente la pornografia del non poter più vedere, nell’altro, quel qualcosa, del tutto sconosciuto, visto una volta sola e poi mai più, che dilaga oltre la forma consueta del volto e dell’espressione, consolidando e rinnovando la seduzione.

La perdita della verginità e dell’innocenza – vissuta nella consapevolezza piena, da una parte, nel passaggio fortuito dell’istante, dall’altra – reale e metaforica, divide sul crinale di diversità di aspettative, di giudizio, di stupefatti momenti che rendono opaca la vista, senza neanche un po’ di attenzione, carne di maschio, carne di femmina, uno di qua, uno di là.

Gli applausi, convinti, al riaccendersi delle luci dopo il completo buio finale, non cancellano del tutto la sensazione del nodo opaco che non si scioglie, che permane quando ti alzi per avviarti all’uscita, che provi a descrivere a te stesso come scrupolo sottile, ansia irrisolta di (ri)scoprire con orrore – non l’hai sempre saputo, in fondo in fondo? – se non nel dato biografico, nell’urgenza, invece, dei meccanismi archetipi del tuo io, l’Aristide Gambìa che c’è in te.