
[rating=4] Diceva Proust, riprendendo Schopenhauer, che il nostro sentire – desideri, emozioni, rimpianti – non avviene mai tramite compiute idee: quando ci mettiamo lì ad analizzare, misurare, spiegare, nel rozzo tentativo infantile e pretenzioso di tradurre ciò che abbiamo provato, avvertiamo inevitabilmente la nostra finitezza e l’oneroso peso dell’ineludibile e insopportabile limite nostro; al contrario la musica riesce a (ri)creare la nostra vita interiore, (ri)donandoci quell’ebbrezza che solo a tratti riusciamo a provare, come se improvvisamente e confusamente – non ne abbiamo, per l’appunto, idea – trasumanassimo al di là di noi stessi. Questa notazione, che come sempre scava nel profondo, se da un lato la dice lunga sulla difficoltà (e in fondo l’inutilità) di scrivere spiegare e concettualizzare, ch’è propria del mestiere del recensore – come sarebbe meglio poter governare le emozioni come i punti e virgola – che tocca (e ogni volta) con mano l’umiltà e la grossolanità dello scrivere suo, dall’altra ci apre però una finestra illuminante su quale dev’essere stata la condizione emotiva e artistica di Puccini che, al termine d’una gestazione travagliata e complicata durata quattro anni, ci donò sì un complesso e superbo capolavoro come Turandot, fermandosi però sulla soglia dell’indicibile (in musica), lì dove il genio suo, che pure aveva vinto tante battaglie, arrivando ad un rinnovamento profondo e degno della più grande considerazione, diventava improvvisamente afasico e irrisolto, nell’incapacità di tradurre in musica – desideri, emozioni, rimpianti – ciò che tanto gli era chiaro a livello d’elaborazione intellettuale e d’analisi. E si fermò. E noi chiamiamo oggi incompiuta l’opera sua. E cerchiamo di farcene una ragione – certo più consolante e meno inquietante – attribuendo alla malattia la morte del Maestro: non ammettendo che sia stata Turandot, a uccidere Puccini, l’Opera ad assassinar l’Autore – come succede più spesso di quanto non si pensi – il gelo della principessa a spegnere il cuore dell’artista.
Si può ignorare questo, quando si mette in scena Turandot? Si può trattar quest’opera come fosse favola per cresciuti bamboccioni, col principe, la principessa e il disneyano vissero felici e contenti? Eppure è quel che fanno da gran tempo innumeri teatri d’opera, di volta in volta chiamando zeffirellici e improvvidi – a volte perfino improvvisati – registi a metter in scena il colore e il kitsch della Gran Cina tutt’uno coll’ultimo romanticume dell’amor vittorioso d’ogni ostacolo e cattiveria. Quando non si svilisca il notturno canto di Calef per vender pannolini od osannar miliardari calciatori. Questa volta però non è così: la Turandot di Roberto De Simone messa in scena qui a Napoli, al San Carlo, in questi giorni, riprende il significato d’estremo (e riuscito, benché incompiuto) tentativo di Puccini di rinnovare il proprio linguaggio musicale, espressivo e drammaturgico, fin, come detto, a morirne, ma è pur altro ancora: certificazione dell’affabulazione mitica in senso pasoliniano (cioè narrazione che concerne le radici del mondo nostro, del nostro esser come siamo, riscoprendone uno dei possibili significati) e insieme serena ma non ebete accettazione del limite, ch’è connotazione della nostra umanità, che costituisce, cioè, essenziale sostanza della nostra carne e del nostro sangue.
Così l’allestimento, messo in scena per la prima volta a Bari in occasione della prima stagione del risorto Petruzzelli dalle ceneri sue (e fu ghiotta occasione di celebrar la (ri)nascita d’un teatro d’opera col melodramma che per molti e molti versi segna tuttavia la fine d’un mondo e d’un tempo ormai perduto), nel 2010, ha poi avuto altre rappresentazioni (a Bologna, a Roma), fino a questa napoletana, ripresa da Mariano Bauduin; s’avvale della grandiosità del disegno scenografico del “nostro” Nicola Rubertelli che dipinge una scena che è l’enorme ripida e vertiginosa scala di pietra del Palazzo Imperiale, ma che di fatto è smisurato e superbo altare, ciclopica ara di pietra dedicata alla principessa del gelo, ch’è, anzi, metafora e immagine, pietrificata nella roccia perenne, della stessa Turandot. È intorno a quest’altare che si svolge la vicenda, codificata e resa asfittica nei gesti stereotipati e meccanici d’una antica liturgia sempre a se stessa uguale, mentre incombe il tempo della crisi, i mille e un giorno s’avvicinano alla scadenza loro, un nuovo ordine del mondo e delle cose le doglie soffre del distocico parto suo: avviene, l’arrivo di Calef, come nelle Scritture, “in quel tempo”, alla pienezza, cioè, dei tempi, a rinnovare un mondo altrimenti destinato ad avvizzir nel sangue e nell’inedia. Il popolo di Pechino veste l’argillosa armatura del sepolto esercito di Qin Shi Huang, disegnata, come anche gli altri ricchi e fantasiosi costumi, dalla fertile mano di Odette Nicoletti, e sale e scende le antiche scale, geometricamente disponendosi come nella fossa in cui per secoli ha dormito: il Coro del San Carlo, diretto da Marco Faelli, prende possesso della scena, ne fa dominio suo, sottolinea, urla, sussurra, geme, sente di poter dialogare con le voci soliste, forte dell’annosa sua professionalità ormai invidiabile; è il coro dell’antica tragedia, che Puccini – sol una delle novità rispetto alla sua prima piena maturità, ma non certo la meno importante – riprende con forza e vigore come protagonista vero dell’opera sua. E l’Orchestra, per l’occasione diretta dal giovane e talentuso Juraj Valčuha, sprizza, scintilla, s’insinua, rompe il ritmo, restituendo al meglio l’ardua partitura, che è sì, come sempre in Puccini, sapiente mix di tessitura tra cineserie e motivi originali, ma che stavolta s’arricchisce e s’adorna di ritmo futurista e dissonanze diatoniche, (con)tributo del Maestro alla contemporaneità d’allora.
Turandot (Elena Pankratova nella prova generale cui ho assistito) ha voce fastosa dai toni potenti che arriva facile al registro acuto sempre con ottima tenuta di fiato; d’altra parte la cantante russa ha nel repertorio ruoli che spaziano da quelli straussiani d’Elektra (la ricordo nel ruolo al Petruzzelli per la regia d’Amelio) e Die Frau ohne Schatten, per citare solo i più recenti, fino alla wagneriana Sieglinde. Mi si permetta di non classificare Calef: alla prova generale Carlo Ventre, rimasto senza voce, s’è limitato a “mimare” in scena il personaggio, mentre Cristiano Olivieri – che interpretava anche Pang – da un leggio sul lato del palco cantava la parte; al terz’atto, poi, la “voce cantante” è stata sostituita da Dario Di Vietri, per la cronaca lo stesso giovane tenore che quest’estate, nella veronese zeffirelliana Turandot ha sostituito, e con successo, lo stesso Carlo Ventre (destini!). Son cose che naturalmente capitano ad una prova generale (se no che prova sarebbe?), ma che non permettono al povero recensore di farsi un’idea chiara: posso solo riportare, sempre per la cronaca, l’urlo da stadio dei tantissimi – è consolante – giovani presenti, alla fine di Nessun dorma, dovuto, certo, alla popolarità del brano, alla giovinezza dell’interprete, e, certo, alla notevole voce, già, come detto, apprezzata, e molto, a Verona. Molto applaudito, comunque, anche Cristiano Olivieri per il volenteroso coraggio con cui si è sottoposto alla doppia prova.
Così, attraverso una narrazione dal taglio volutamente cinematografico – anche con l’uso dei numerosi velari che nascondono la scena per lunghi tratti, così da permettere, attraverso un suggestivo gioco di dissolvenze e trasparenze, un (a volte un po’ didascalico) commento al testo – si giunge al finale: al centro della scala (al centro dell’altare, nel cuore, dunque, di Turandot) è celata la tomba d’una giovanissima Lo-u-Ling ch’è incolpevole causa del gelo della principessa, prigioniera del dolore connesso al suo ricordo, trauma alla radice della sanguinosa sua nevrosi: sarà il sacrificio di Liù, nell’intento pucciniano, a mettere in moto la reazione a catena che servirà a sgelare il cuore della principessa. Liù è una strepitosa e memorabile Eleonora Buratto, di una spanna al di sopra degli altri interpreti (per lei son veramente tanti gli applausi finali), sia musicalmente (elegantissimo timbro dal gran bel colore) sia drammaturgicamente: assume nella prima parte anch’ella movenze stereotipate, per lasciarsi andare sempre più verso la fine ad una raffinata naturalezza, interpretando al meglio la parte di questo personaggio che conserva intere le stimmate della spiegata vocalità pucciniana, del tutto ignote invece a Turandot: personaggio fortemente voluto dallo stesso Maestro, la piccola schiava, probabilmente per smuover le secche dell’ispirazione rammentando in certa misura il tempo antico, e che alla fine fu sacrificato da Puccini stesso nell’estremo tentativo di quadrare il cerchio e provocare in qualche modo il miracolo dello scongelamento d’un cuore pietrificato (la “trasfigurazione” vagheggiata, a somiglianza di quella d’Isotta nel Liebestod del Tristano). Non ci riuscì, come sappiamo, e come abbiam già detto, e ci è piaciuto (sappiamo che tanti non saranno d’accordo, ma non importa, è così da sempre) che De Simone faccia finir la rappresentazione con la morte, appunto, di Liù, laddove finirebbe altra qualsiasi delle opere dell’Autore, protagonista Mimì o Cio-Cio-San che sia. Le cronache sostengono che De Simone abbia scritto un finale alternativo e che Casa Ricordi, proprietaria dei diritti, non abbia ritenuto di poterla rappresentare: con tutto il rispetto, mi permetto di osservare che, alla fine, è meglio così: scartato l’orrendo finale d’Alfano nella revisione Toscanini, escluso, perché troppo volutamente estraneo alla musicalità pucciniana quello di Berio, è bene che finisca Turandot dove Puccini volente o nolente l’ha in realtà fatta finire: nella visione del regista, la deposizione del corpo di Liù nella tomba al centro della scala trasforma in benigno lo spirito di Lo-u-Ling che, offrendo un fiore ai due protagonisti, salva finalmente Turandot dalla sua nevrosi riconsegnando lei e il mondo intero alla vita. Come avrebbe detto Toscanini, “Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto”. Comincia la vita.