Semplicità e nostalgia d’assoluto della Traviata

Al Teatro san Carlo di Napoli dal 20 maggio al 20 giugno la ripresa della Traviata, per la regia di Lorenzo Amato, le scene di Ezio Frigerio e la direzione di Jordi Bernàcer, con Nino Machaidze, Leo Nucci, Francesco Demuro

Ieri sera al Teatro San Carlo, qui a Napoli, ho avuto modo, assistendo alla ripresa della Traviata nell’allestimento che vede la regia di Lorenzo Amato e le scene di Ezio Frigerio – di cui già abbiamo dato conto, ed a quella recensione si rimanda per molti aspetti comuni a questa ripresa – di toccar con mano quanto spesso si dice di quest’opera, e in particolare del personaggio di Violetta, della sua assoluta unicità, e poi dell’altro elemento che, insieme al primo, in modo assolutamente inscindibile, genera la fortuna, che perdura tutt’oggi, della partitura, e che ne fa l’opera lirica più rappresentata al mondo.

E non mi riferisco tanto – o non solo – all’inedita vocalità del personaggio: certo, quando, come ieri sera, trovi una grande interprete del calibro di Nino Machaidze, tutto diventa più chiaro, riconoscendo incarnate perfettamente nel seducente splendore della voce della cantante georgiana, le famose “tre voci”, che sono tutt’uno con l’azione scenica, inscindibile anima – come diceva Proust – del dramma che s’avvita inesorabile in tragedia.

Ma è soprattutto l’assoluta irriconducibilità del personaggio ad altri precedenti, a colpire, la sua perfetta unicità che fa sì che ogni grande interprete di Violetta ne esplori un aspetto, un momento, risultandone alla fine – con la freschezza d’una Primavera botticelliana, ogni volta rinascendo compiuta antica e nuova – una possibile e originale Violetta non perfettamente sovrapponibile alle altre trenta o trecento o tremila, rifuggendo da ogni “tipicità”, al contrario di tutte le Norme o le Lucie e perfino di tutte le Gilde o le Aide.

Così, dal primo apparire, esanime durante quello che si direbbe il suo funerale, sotto l’incessante pioggia – sotto l’incessante pianto – fra sei personaggi in frac e ombrello, Nino Machaidze presta se stessa al ripercorrere tutta la storia di Violetta, racconto scandaloso di redenzione, d’amore e di morte, che il regista ha costruito come lungo flashback rivissuto attraverso il filtro di un ricordo ovattato che stinge i colori e ammorbidisce i contorni, fino a far morire Violetta insieme alla scena mentre l’orchestra suona le ultime note, implodere colori e luci per lasciare il posto alla visione di ciò che sta sotto, la grezza architettura del palcoscenico che, come scheletro umano, permetteva alla scena stessa di stare in piedi e vivere.

Teatro. Teatro che è finzione ma non falsità, che permette alla protagonista di passare senza soluzione di continuità dall’acrobatico soprano leggero che canta e vive la gioia, a quello della passione lirica dell’amore, a quello drammatico delle lunghe frasi della scena del gioco, o dell’Amami, Alfredo che si apre improvvisamente per poi subito chiudersi, dando perfetto significato al prevalere del senso teatrale e vitale perfino sulla musica che, ora sì, diventa essa stessa vita e non più ornamento, elemento decorativo, abbellitivo, inessenziale.

Una Violetta, quella della Machaidze, che vive la sua esistenza nella convincente e avvincente fascinazione di una esecuzione pressoché perfetta – con la compiutezza che può derivare dall’unicità d’ogni possibile interpretazione, di cui prima si diceva – in cui ogni gesto, dal trattenere la carezza d’Alfredo come dovesse eternamente durare, al piegare la testa in una particolare inclinazione, ha il suo peso, la sua forza, il suo inconfondibile significato.

E tanto più credibile, diventa, la sua madamigella Valery, quanto più il soprano georgiano riesce a dar puntualmente conto, a noi seduti in platea, del continuo divenire del personaggio, della sua evoluzione, perpetua come l’acqua inafferrabile e inarrestabile che scorre, del crescere inestinguibile dell’amore tutt’uno col disprezzo della vita di prima, ormai diventata incomprensibile ed enigmatica maschera che nasconde ogni possibile evoluzione e libertà, con gesto elegante e voce perfetta in ogni registro, lontani, l’uno e l’altra, da ogni manierismo stucchevole.

È nel duetto con Germont che tutto diventa ancora più evidente, risalta di propria luce, la Machaidze del Dite alla giovane raggiunge una dimensione altra e purissima, pervadendo dal gesto, dalla voce, dalla postura del corpo, il dolore infinito e l’umanissima rassegnazione che fanno di questa pagina, causa non ultima del primo insuccesso dell’opera, una delle punte altissime, invece, del genio verdiano, che rende piena ragione dell’altro elemento che fa di Traviata il capolavoro rivoluzionario che è, l’esser cioè il primo dramma in prosa musicale del nostro teatro lirico: basti osservare come dovunque la melodia fiorisca senza l’a capo e la ripresa, come sia rara la prolessi, pur rispetto al vicinissimo Trovatore, come e quante volte la frase si spezzi e poi riprenda, in un ritmo che è colloquiale, proprio del parlato, se pur sublimato dal canto, tuttora e sempre avvertibile.

Naturalmente bisogna essere in due, per affrontare un lungo duetto così, e necessita pure che, per un personaggio come quello di Germont, geniale invenzione verdiana, vero contraltare di Violetta, l’interprete – e la regia – non sfilacci, non svaluti questo dignitoso padre verdiano, che ha sempre portato il tight, il bastone col pomolo e lo chapeau claque, nella forzata caricatura in cui improvvidi registi lo fan scadere, magari facendolo presentare con una giarrettiera in mano, lasciando artificiosamente l’immaginazione viaggiar verso chi sa che reconditi peccaminosi retroscena. In una parola, ci vuole, per capirla appieno, questa pagina capitale, accanto al soprano di gran valore che abbiamo, un grande baritono: chi, meglio di Leo Nucci?

Ora, trovo perfettamente inutile che io mi dilunghi a dire chi sia Leo Nucci né come abbia cantato: sta di fatto che, nella sua interpretazione, tutta la segreta forza di questo personaggio risieda invece nella sua semplicità, in perfetto quanto labile equilibrio con una sottesa complessità, in cui ogni parola, ogni gesto, ogni nota assuma un valore decisivo. Quai modi! Pure…, le parole diventano, nella loro assordante e disarmante semplicità, segno e sintomo di realtà in conflitto, che Nucci magistralmente risolve dapprima verso una velatura in piano, poi salendo nel “pure”: inquietudine, sospetto, rigidità. Il Germont di Nucci – il Germont di Verdi – sa usare, nella sua sapienza, la parola: il fraseggio, sempre pronto all’energia d’un’esclamazione o alla leziosità d’un complimento, si scopre, come la musica che lo accompagna, composto da sospensioni, smorzamenti, sbalzi cromatici, indugi, intervalli che ne tessono la segreta tela. Il tempo, certo, ha lasciato i suoi segni, ma la voce è ancora incredibilmente fresca; e poi, ciò che si perde in smalto lo si recupera in padronanza, che permette, perfino, d’uscire dalla trita prevedibilità d’un’aria come Di Provenza per approdare ad un perfetto quanto sorprendente scavo psicologico, tanto da meritare, e concedere, il bis.

Alfredo, com’è giusto che sia, non è personaggio della stessa forza e della stessa novità, sospeso tra un Manrico meno epico e un Duca di Mantova meno vitale e cinico: un personaggio in chiave minore, per cui spesso non si pretende, dall’interprete, altro che “canti bene”, intonando i bollenti spiriti come il Duca il parmi veder le lacrime, cercando al massimo, in ambo i casi, di dissimular la carenza d’ispirazione. Francesco Demuro va ben oltre, perché, oltre ad esser fornito d’una voce piena e dal timbro bello che sa elargire sempre con grande generosità, mostra pure ottima dizione e fraseggio morbido, e poi non comuni doti attoriali, grazie alle quali, complice l’accorta regia, riesce a restituirti un Alfredo ben lontano dallo stereotipato innamorato monodimensionale a cui purtroppo abbiamo dovuto far l’abitudine.

Così, la goffaggine provinciale della festa di Violetta del primo atto, la distesa apparente felicità del secondo che precipita verso la violenza dell’invettiva, il pentimento e la tardiva riconciliazione, disegnano un percorso di vita che Demuro sa prender su di sé con grande apparente semplicità – sicuro segno di lungo studio – per restituirci l’esatta sensazione di un personaggio, quello di Alfredo, che, pur nella carenza di novità rispetto agli altri, riesce a trovare in sé, tuttavia, quando ben interpretato, come in questo caso, la sua assoluta necessità, che deriva proprio dall’estrema normalità del personaggio, psicologicamente giustificata appunto perché risalti, per contrasto tra il mediocre e il sublime, l’eccezionalità degli altri.

La direzione di Jordi Bernàcer risulta, complessivamente, corretta a sufficienza, pur preferendo chi scrive minore meccanicità degli stacchi e degli accompagnamenti, come nel primo preludio, ove si avverte forte e senza alcuna mediazione la scansione dei tempi, o nel secondo, dove ho avvertito dissimular fin troppo il carattere, per così dire, chopiniano, proprio di questa pagina, a favore invece d’un tono più onirico e crepuscolare che – ma è questione di sfumature – mi par essere più comune ma, non per questo, più corretto. L’Orchestra e il Coro hanno, come sempre, dato prova della loro grande professionalità.

Per l’accorta regia di Lorenzo Amato e le scene eleganti ed essenziali di Ezio Frigerio, si rimanda, come detto, alla recensione scritta a proposito della precedente messa in scena, qui al San Carlo, nel mese di febbraio. Qui dirò solo che si è trattato di un allestimento che molto ha lavorato per sottrazione, restituendo il capolavoro verdiano alla sua essenzialità, escludendo le proiezioni così suggestive e alla moda per tornare ai fondali dipinti a mano, frutto del lavoro artigianale delle maestranze teatrali e giocando molto, in questo senso, anche intorno ad una certa metateatralità che, in fondo, ben si addice, a pensarci, alla vicenda di Violetta.

È parso a molti, questo lavorìo di (ri)conquista di una semplicità perduta, che è sempre piuttosto complesso, chiaro segno d’eccessivo pauperismo, d’indebita spoliazione, mentre altro non è che liberazione, finalmente – osiamo dire – dall’eccesso d’improvvido zeffirellismo che, in nome d’un illecito e barbarico horror vacui compulsivamente spinge a riempir la scena d’orride quanto inutili suppellettili e d’oziose sovrastrutture, emancipazione che restituisce l’opera alla sua inaudita e provocante nudità dove l’ha collocata l’Autore e dove più libera possa risuonare ed agire la musica e la parola.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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semplicita-e-nostalgia-dassoluto-della-traviataGiuseppe Verdi <br>LA TRAVIATA <br>Libretto di Francesco Maria Piave <br> <br>Direttore, Jordi Bernacer <br>Regia, Lorenzo Amato <br>Scene, Ezio Frigerio <br>Costumi, Franca Squarciapino <br>Luci, Fiammetta Baldiserri <br> <br>Violetta, Nino Machaidze <br>Alfredo, Francesco Demuro <br>Flora, Tonia Langella <br>Annina, Michela Petrino <br>Giorgio, Leo Nucci <br>Gastone, Orlando Polidoro <br>Il barone Douphol, Roberto Accurso <br>Il marchese D’Obigny, Nicola Ebau <br>Il dottor Grenvil, Gianluca Breda <br>Matador, Giuseppe Ciccarelli <br> <br>Nuova produzione del Teatro di San Carlo <br>Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo <br>Lingua, italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata, 2 ore e 40 compreso un intervallo <br>In scena dal 20 maggio al 20 giugno 2018 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 31 maggio 2018