
Gli Anni d’oro: quali sono? Lo s’intuisce fin dall’inizio: quelli della scuola, del liceo per l’esattezza, che tutti ricordano come un tempo felice e spensierato, seppur con piccoli e tragici problemi legati all’adolescenza. Al Nuovo Teatro San Paolo va in scena il testo di Michele Di Vito, il vincitore dell’edizione 2018 di Belli Corti, Gli Anni d’oro, con l’adattamento e la regia di Ferruccio Ferrante.
È un testo dai toni malinconici e amari, chiaramente ispirato al noto film Compagni di scuola di Verdone, ma qui l’organizzatrice della rimpatriata non è una ricca annoiata, bensì un’autrice televisiva disoccupata che vuole speculare sui suoi compagni di scuola per ritornare in tv. E il format della scena è proprio “televisivo”. Un gruppo di ex compagni di scuola si riunisce in una villa, la scusa non è solo quella di rincontrarsi, ma anche di far visita e dare un ultimo saluto ad Elena, afflitta da una grave sindrome che, dopo averle tolto la vista e l’udito, lentamente le sta facendo perdere anche la memoria. Elena è incapace di intendere e di volere e per tutto il tempo produrrà voci e suoni stridenti con il contesto, ma comici al tempo stesso. Che gioia rivedersi in un primo momento! Tutti giocano a far finta di essere affermati e felici, ma dietro quei sorrisi spavaldi o accennati si annida una profonda solitudine e un’immensa delusione. Nessuno è fondamentalmente realizzato e appagato. Tutti si sono accontentati: dal venditore di tappeti su TeleOro alla ragazza viziata e mantenuta dal fidanzato ricco. La prima parte è divertente, scorre tra battute, rimpianti, frecciatine che diventano poi, grazie al potere disinibitorio di una tisana, attacchi personali, esplosioni di rabbia e rancori repressi e covati per anni. Ed ecco che la sincerità apre le porte all’amara verità, le maschere cadono ad una ad una e ci si ritrova tutti nel metateatro, su un palcoscenico che diventa uno specchio in cui riflettersi e conoscersi.
Non manca la parentesi romantica di un amore non sbocciato tra Sara e Matteo solo perché lui quella fatidica sera, quando lei le chiese di salire, si vergognò dei pappagallini stampati sull’intimo.
E poi la sorpresa finale, in stile verdoniano. Rispetto al film, però, la galleria di personaggi è sì eterogenea, ma sono “tipi” più che persone. Manca la caratterizzazione psicologica, l’individualità, a tratti, quindi, il coinvolgimento emotivo barcolla un po’, mentre è ben delineato e reso sulla scena il gioco delle maschere. Tutti fingono nella finzione e con maestria.
Lo sforzo di “vivere” le situazioni più che recitarle è ben evidente.
Scena e allestimento sono curati nei dettagli, così come i costumi degli attori. Si svolge tutto all’interno di una villa. Gli attori (Antonio Amatruda, Greta Civitareale, Nicoletta Conti, Daniele Di Martino, Chiara Favale, Danilo Fiorentini, Giorgia Francozzi e Anna Carla Gerardi) hanno una buona presenza scenica e una buona dizione.