Mistica modernità dei Dialogues des Carmélites

[rating=4] È uno dei pochi, pochissimi titoli d’opera della seconda metà del novecento che si rappresenti oggi con una certa assiduità, sia in Francia che all’estero; e, certo, all’interno di questo ristretto gruppo d’élite, Les dialogues des Carmélites occupa un posto singolare per la sua struttura, così placidamente e quasi inconsapevolmente classica nell’ampiezza del suo dispiegarsi, pur (ri)marcando la propria sua franta modernità nell’articolazione in quadri (dodici, quattro per ognuno dei tre atti) che ne frammenta il racconto e ne spezza la linearità. Perché se l’opera racconta una storia di più di due secoli fa, lo sguardo che s’attarda a scrutar l’anima di monache giovani e anziane del convento di Compiègne o che rapido si muove a descriverne le angosce e le gioie, porta in sé il seme ansioso e sfuggente del disincanto esistenziale moderno che si coniuga, già nei dialogues del titolo, con un sorvegliato e disilluso e non antistorico socratismo cristiano: Bernanos, col suo tormentato cattolicesimo esistenziale, è l’autore d’una sceneggiatura per un mai realizzato film che trasse, nel 1949, da un romanzo di Gertrud von Le Fort, Die Letze am Schafott (L’ultima sul patibolo) del 1931. Fu l’editore Ricordi a proporre a Francis Poulenc quella sceneggiatura come base d’un libretto di un’opera lirica.

Su una scena divisa, rotta, incasellata in partizioni – due quinte laterali si articolano con una larga banda superiore che occupa, in verticale, più della metà dell’arco scenico – si svolge una storia vera su cui s’innestano elementi di fantasia: vera è la storia del Convento di Compiègne e delle suore carmelitane che l’occupavano, condotte al patibolo negli anni del Terrore. Storia emblematica e archetipa d’intolleranza e d’ignoranza, ch’analoga si ripete nei nostri giorni scossi d’altri ma sempre simili integralismi; e tuttavia ripresa, quasi a suggellar l’inizio della modernità nostra, che dalla grande rivoluzione di Francia prende sostanza e consistenza d’azione e di pensiero: diventa allora macchia oscura, scotomizzata, segregata, che indelebile tinge la nostra (ri)nascita nell’oggi tanto ordinato e civile, quasi peccato originale che battezza la credula nostra vanteria.

Les Dialogues des Carmèlites di Francis Poulenc, Teatro Petruzzelli, Bari – Ph. Carlo Cofano

D’invenzione è il personaggio centrale dell’opera, Blance de la Force (interpretata da una sempre attenta Ermonela Jaho che ha catalizzato le attenzioni del pubblico) – nome ch’è traduzione e francesizzazione del cognome dell’autrice del romanzo originario, von Le Fort, ma che nasconde, in un sorpreso calembour, un’ombra di trattenuto sarcasmo, viste le paure della protagonista – che, all’inizio della vicenda, comunica al padre, il Marchese de la Force (Jean-Philippe Lafont, dalla grande presenza scenica), ed al fratello (Martial Defontaine, accorato e tenero), la sua intenzione di entrare nel Carmelo: troppa la paura del mondo, che non riesce a comprendere ed amare. Così, mentre nel mondo di “fuori” – e sono scene che ci vengono mostrate nella traslucida banda superiore della scena, che perdono all’occorrenza il loro spessore opaco d’informi macchie di colore grazie ad un sapiente gioco di luci – si cominciano ad avvertire sinistri scricchiolii che annunciano la rivoluzione, dentro le mura del Carmelo Blanche viene accettata, insieme a Constance (una convincente e fresca Valentina Farcas), come novizia, dopo un colloquio con la Priora (Sylvie Brunet-Grupposo che domina la scena senza se e senza ma). Così, di dialogo in dialogo, attraverso i vari quadri, si attraversa la vita di questo gruppo di donne, entrando nelle loro vite e nella diversità dei loro caratteri, delle loro aspettative, ma anche del modo loro di vivere la fede: una riflessione e una meditazione altissime sul senso della vita, della morte, sulla paura, sulla gioia. Parafrasando Tolstoj, se è vero che ciascuna famiglia, quando è infelice, lo è a modo suo, così anche la fede, se intensamente vissuta, lo è sempre a modo suo: come giudicare, se non come evenienza ricompresa nell’ineffabile e infinita varietà dei possibili, la morte così umanamente straziante – disperata, perfino, all’apparenza – della Priora? E l’elezione della nuova Priora (una materna e dolce Cécile Perrin), anche nei modi e nella guida della comunità, così diversa dalla prima? E la fede di Madre Maria (Anaik Morel energica e trattenuta al tempo stesso), così inflessibile e integralista nella sua ricerca del martirio, non sembra lontana anni luce da quella semplice e innocente e leggera della giovane Constance?

La regia di Leo Muscato sottolinea tutto ciò, e così le scene di Federica Parolini (impossibile non citare i superbi costumi disegnati da Silvia Aymonino), mostrandoci come il microcosmo del Convento, universo femminile all’apparenza così omogeneo, nasconda invece inesauste possibilità di differenziazione; ci fa intuire, inoltre, e con mano leggera, come questo piccolo mondo chiuso da grate sia in effetti in continua osmosi con l’esterno, con quel che fuori avviene: mi riecheggiavano in mente, mentre assistevo alla rappresentazione, ciò che disse a Sergio Zavoli la Madre Superiora del Carmelo da lui intervistata in un famosissimo reportage radiofonico di tanti anni fa, Clausura: “Ogni giorno noi intersechiamo le strade della città”, pur restando chiuse qui dentro, evidentemente, ed è proprio così, ed è mistero giustificato solo dalla fede.

Les Dialogues des Carmèlites di Francis Poulenc, Teatro Petruzzelli, Bari – Ph. Carlo Cofano

Così il mondo di fuori si mostra ai lati e sopra il cuore della scena, come abbiamo detto, fino ad irrompere nel mondo di dentro, fino alla scena della prigione, in cui la Priora conforta le consorelle in attesa del processo: ci rendiamo conto allora di come quelle che fin allora eran per noi le quinte laterali e la banda superiore in cui vedevamo riflessi, come in uno specchio, gli eventi del mondo, altro non fossero che pareti e soffitto della cella, prigione presente fin dall’inizio e liberamente accettata, infatti, dice la Priora, “nessuno saprebbe rapirci una libertà di cui ci siamo spogliate da tempo”, segno e pegno d’un’umile e mai scontata alterità dell’animo. Nella scena successiva, che è quella famosa del Salve Regina, in cui ad una ad una le consorelle vengono decapitate, la convenzione scenica che aveva differenziato fin lì i due mondi non sussiste più: un lungo taglio di luce obliquo – che riecheggia nella forma, sinistramente, la lama della ghigliottina – viene attraversato da ogni suora singolarmente, che ascende percorrendo il suo personale percorso, fino all’accecante luce del martirio.

Les Dialogues des Carmèlites di Francis Poulenc, Teatro Petruzzelli, Bari – Ph. Carlo Cofano

Questa geniale conclusione corona una messa in scena notevole nella sua disarmante e tranquilla semplicità: il maestro Daniel Kawka ha diretto in modo impeccabile un’Orchestra, questa del Teatro Petruzzelli, in gran forma e che sempre più sa donare a questo Teatro e a questa città le grandi soddisfazioni che merita. Scelte coraggiose come questa, che fanno assaporare un repertorio non certo scontato, devono necessariamente trovare generosi competenti e sapienti interpreti: così, oltre ai già citati, impossibile non accennare almeno ad alcuni dei numerosi membri di un cast eccellente, a partire naturalmente dal Coro, diretto come al solito da un eccellete Franco Sebastiani: mi si permetta di citare Rodolphe Briand (il cappellano), Sara Allegretta (Suor Mathilde), Francesco Castoro (Primo Commissario e Thierry), Domenico Colaianni (Secondo Commissario e Carceriere); è grazie al loro impegno e alla loro grande professionalità che un’opera corale – anche questo evidente segno della modernità – riesce a vivere e emozionare chi ha la ventura di trovarsi in platea.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here