“L’heure espagnole” e “L’enfant et les sortilèges”: dittico di successo

Alla Scala di Milano il rarissimo dittico di Maurice Ravel secondo la regia di Laurent Pelly e la bacchetta di Mark Minkowski

[rating=5] Successo alla Scala per il rarissimo dittico di Maurice Ravel “L’heure espagnole” e “L’enfant et les sortilèges”, secondo la regia di Laurent Pelly e la bacchetta di Mark Minkowski.

Il genio di Ravel è arcinoto in tutto il mondo per le sue straordinarie composizioni orchestrali, pianistiche e cameristiche, che hanno ispirato coreografie di famosi ballerini e che sono spesso entrate nel senso comune, come l’apprezzatissimo e ascoltatissimo Bolero. Della sua produzione non capita che solo in preziose e prestigiose occasioni di ascoltare le due opere, o fantasie liriche, che il Teatro alla Scala ha scelto prodigiosamente di mettere in cartellone quest’anno.

L’heure espagnole è una delle tante dichiarazioni d’amore di Ravel per l’universo iberico, lui che era di famiglia basca, seppure del Pays Basque francese da secoli, ed è profondamente intrisa di sonorità spagnoleggianti. L’ambientazione è una bottega artigianale di Toledo, capitale spirituale della Castiglia, e nel finale i protagonisti stessi dichiarano al pubblico che la storia appena messa in scena non è stata altro se non una farsa boccaccesca di “un finanziere, un poeta, un marito ridicolo e una moglie civetta, con un po’ di Spagna attorno.”

L'heure espagnole

La spigliatezza dei dialoghi e la vivacità della trama sono dovute in gran parte al soggetto, derivato direttamente da una commediola di Franc-Nohain, il librettista, che caratterizza i personaggi secondo l’uso della commedia italiana: maschere archetipe cui spetta un preciso ruolo nel gorgo degli equivoci che si susseguono ed intrecciano. Ravel asseconda questa caratterizzazione, marcando le differenze di stile, di fraseggio e di ritmo dei protagonisti e si diverte, sulle soglie del ‘900, ad interpretare quello che era stato per secoli il genere tipico della tradizione operistica mediterranea. Qui e là, inoltre, si colgono citazioni notevoli, una su tutte la habanera della Carmen di Bizet.

La fantasia di Ravel coglie certamente i presupposti per elementi di novità. La vicenda scandalosa di una moglie fedifraga, che cerca la passione fuori dal vincolo matrimoniale e scevra dei languori amorosi, si svolge nel contesto più meccanico e automatico possibile, il laboratorio di un orologiaio. La ritmicità diventa così il contrappunto ironico e grottesco delle linee di canto, utilizzando e sperimentando nuove sonorità, come quelle delle campanelle, del carillon, della celesta, della frusta, oltre agli effetti prodotti dall’orchestra, come gli ottoni in sordina o i glissando dei bassi.

Ai cantanti è richiesta quella vocalità già sdoganata da Debussy e dall’impressionismo musicale, mettendosi completamente a disposizione della recitazione, intonando le parole piuttosto che cantandole, senza risparmiare giochi burleschi come i passaggi in falsetto o veri e propri versacci.

Ottimo il cast, che rotacizza la dizione nascondendo l’erre francese, e conferisce al canto un ulteriore colore pittoresco. L’orologiaio Torquemada è il tenore Jean-Paul Fouchécourt, che apre e chiude l’azione scenica ignaro dell’infedeltà della moglie. La bella Conception è Stéphanie D’Oustrac, soprano agile e convincente, attrice di spiccata verve teatrale. Divertente e seducente, si atteggia da vera maitresse.

L'enfant et les sortilèges

Gonzalve, il tenore Yann Beuron, il poeta amante di Conception, che non riesce a soddisfarne le voglie tutto preso com’è dall’ispirazione lirica, e che ben presto si ritrova a nascondersi nella cassa di una pendola catalana. Don Inigo Gomez, ricco banchiere, il baritono Vincent Le Textier, nella parte di un vecchio e corpulento spasimante, invaghito di Conception ma incapace, per la gravosa età, di poterle dare piacere. Anch’egli si ritrova rinchiuso in un grosso orologio a pendolo e, per buona parte dell’opera, canta e recita da quell’angusta postazione, essendovisi rimasto incastrato a causa della sua grossa stazza.

Infine Ramiro, lo sciocco e ingenuo mulattiere, il baritono Jean-Luc Ballestra, che si presta a trasportare da una parte all’altra della scena le due grosse pendole, ora vuote e ora occupate dagli spasimanti, ognuno dei tre inconsapevole degli altri, e che, grazie a questa strabiliante prova di forza muscolare suscita infine le attenzioni della padrona di casa: “Vi spiacerebbe tornare nella mia stanza?” “Con quale dei due orologi?” “Senza orologio!”.

Splendida e affascinante la scenografia. Laurent Pelly costruisce un interno barocco, denso di oggetti e di particolari, non solo di orologi, come fosse la bottega di un rigattiere, e i costumi ci portano alla Spagna della seconda metà del secolo scorso. Le pareti altissime non hanno spazi di vuoto e pure la scena è ingombra: campeggiano in particolare un toro e, ovviamente, le due pendole, che Ramiro porterà e riporterà nella stanza di Conception, nascosta oltre un corridoio buio, cui si accede da una piccola scalinata a ringhiera. I tanti orologi alle pareti, di ogni foggia, sono perlopiù fermi, si accendono e spengono, e segnano ciascuno un’ora diversa (l’ora spagnola?).

Di genere totalmente diverso L’enfant et le sortilèges, fantasia lirica di carattere magico e onirico, nata dalla fantasia della grande Colette, che ne ideò il soggetto sotto il titolo di “Ballet pour ma fille”.

Il susseguirsi in carrellata di scene senza soluzione di continuità e legate da una trama esilissima ricorda molto i divertissement dei balletti di fine ottocento e alla coreografia ben si presta questa singolare operina, come testimonia la prima assoluta monegasca diretta da De Sabata e coreografata nientemeno che da Balanchine. Più di tutto, però, la personificazione e vivificazione di animali, piante e oggetti ci rammenta lampantemente il noto “Carnaval des animaux” di Saint-Saen, d’innegabile maggiore fortuna e popolarità.

Anche la musica dimentica ogni coerenza stilistica e si presenta come uno spettacolare pastiche di generi variegati, dal minuetto al fox-trot, dal rococò al jazz, valzer e marcette, duetti e polifonia corale, utilizzando strumenti come raganelle, grattugie, piano luteale, crotali, flauto a coulisse, ecc. Grande virtuosismo è richiesto ai tanti solisti e ai maestri d’orchestra, nel rendere tanto le difficoltà tecniche quanto l’immedesimazione negli stravaganti personaggi.

La storia si cala in medias res nei capricci di un ragazzino che non vuole fare i compiti e si sfoga contro i rimproveri della madre su uno scoiattolo e su altri oggetti e che, rapito dalla fantasia e dal sogno, in cui gli faranno visita un vecchio professore di matematica e una bella principessa delle fiabe, viene travolto dalle personificazioni di teiere, poltrone, arazzi, piante, gatti, fiori e insetti, finché, impaurito nel mezzo di questo giardino fantastico, circondato da ogni sorta di essere vivente, accudisce all’animaletto che aveva in precedenza ferito e si ferisce a sua volta. Piante e animali, impietositi, lo aiutano a chiamare “Maman!”.

La scenografia di Laurent Pelly è pulita e malinconica, elegante nelle sue allusioni ben congeniate. Pochi e giganteschi elementi delimitano il palco, immerso nel buio, nella prima parte dell’opera ambientata all’interno: alte e snodabili pareti, un immenso tavolo deforme, grosse poltrone da salotto, un’altissima sedia di legno, eccetera, che sembrano alludere ai macroscopici e microscopici mutamenti di dimensione dei viaggi di Gulliver o di Alice nel Paese delle Meraviglie. Quando le scene si spostano nel giardino, a costituire elementi di ambientazione sono gli stessi cantanti del coro travestiti da alberi, fiori e insetti, con costumi davvero ben fatti, quasi cinematografici, insieme agli animali che interagiscono col ragazzino.

Eccellente il coro e le voci bianche, diretti da Bruno Casoni, d’impeccabile dizione e perfettamente calati nella parte, vocale e teatrale.

Ottima Marianne Crebassa, en travesti, che si distingue anche in questo repertorio per pulizia del timbro e per intensità di espressione. Mezzosoprano dalla voce allo stesso tempo fresca e intensa, in grado di interpretare così bene l’ampio spettro di emozioni che l’enfant prova durante lo spettacolo.

L'enfant et les sortilèges

Sul palco tornano la D’Oustrac, questa volta nelle vesti della gatta e dello scoiattolo, Fouchécourt, nei panni della teiera, del vecchio professore e della ranocchia, e Ballestra, questa volta l’orologio e il gatto. Li accompagnano Anna Devin, la poltrona e il pipistrello, Armelle Khourdoian, il fuoco, la principessa e il pettirosso, e Jérome Varnier, poltrona e albero. Dai ranghi dell’Accademia scaligera si esibiscono le voci soliste di Fatma Said nei panni una pastorella, Chiara Tirotta in quelli di un pastorello ed Elissa Huber nelle vesti di una civetta.

Apprezzatissimo il maestro Marc Minkowski, che dal podio dirige orchestra e cantanti con minuzia e precisione, sottolineando le peculiarità delle parti, bilanciando i pesi dell’orchestrazione ed evidenziando i passaggi melodici e i fraseggi, sempre attento alla scansione ritmica, secondo una poetica del dettaglio che ben collima con il dittico di Ravel e che Minkowski ha assunto nella sua pluriennale esperienza barocca e classica.

Spettacolo applauditissimo da tutto il pubblico, con convinta e affiatata soddisfazione, nonostante la sala ci sia sembrata immeritatamente e sconsideratamente spopolata.

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