
Togliamoci subito il pensiero e diciamo la cosa ovvia, pur se dolorosa: Čarodejka, l’opera di Čajkovskij in questi giorni rappresentata a Napoli per la prima volta in Italia, non è un capolavoro, anzi ha tutte le stigmate di opera “in mezzo al guado”, per molti versi di sperimentazione, tra le avvenute conquiste di Onegin e i futuri equilibri de La Dama di Picche: la musica di Čajkovskij segnala con ogni evidenza questa incertezza e questa discontinuità. Che poi sono le caratteristiche di tutto il Čajkovskij operista, condannato a perennemente oscillare tra capolavoro e irresolutezza, ardenti passioni e incomprese tiepidezze, per cui della decina d’opere composte ne mettiamo tutt’oggi in scena, almeno qui da noi in occidente – mi rendo conto che in Russia il discorso può essere diverso, anche a causa della ricerca sulle fonti popolari della musica di quel paese, che il compositore ha sempre portato avanti con lodevole passione – solo, all’incirca, la metà. Ciò non vuol dire, naturalmente, che si tratti di un errore aver messo in scena quest’opera, anzi: è preziosissima l’opportunità che ci ha dato il Teatro San Carlo di conoscere questo lavoro, che, ovviamente, solo alcuni conoscevano, e per averlo solo ascoltato; la messa in scena fuori dalla Santa Russia non è infatti mai avvenuta prima del 2003, proprio con questa stessa produzione, che oggi troviamo a Napoli, del Mariinskij di San Pietroburgo, per il Teatro São Carlos di Lisbona. Si tratta, come qualcuno diceva, di dare a Cesare quel che è di Cesare e riconoscere con chiarezza i limiti che sono già nella musica e nella drammaturgia e che non possono, con tutta evidenza, non riflettersi nella rappresentazione finale.

Ambientato sul finire del quattrocento, vicino Nižnij-Novgorod, alla confluenza dell’Oka con il Volga, narra la storia di Nastas’ja, detta Kuma, padrona di una locanda: chiacchiere di paese dicono che riesca, grazie a incantesimi, a far schiavi tutti gli uomini che arrivano nel suo locale a giocare a dadi, a bere, a divertirsi. Arriva anche il Governatore Principe Nikita, che ovviamente s’invaghisce prontamente di lei, con gran dispetto del vecchio trombone moralista Mamyrov, diacono e segretario del Principe: ci metterà poco a rivelare il tutto alla Principessa Evpraksija, che s’ingelosisce e invia il figlio Jurij a sbarazzarsi della maliarda. Intanto, il Principe non riesce, nonostante la minaccia di violenza e di morte, a ottenere i favori di Kuma; nella notte arriva Jurij, al quale la donna rivela di essere da sempre innamorata di lui. Colpito dai modi riservati di lei, così diversi dalla fama di cui gode nel paese, anche Jurij s’innamora e decide di partire con lei verso posti lontani, al riparo dalle maldicenze e dall’odio. Non faranno in tempo, tuttavia, ad imbarcarsi: la Principessa in persona, travestita da pellegrina, riuscirà ad avvelenare Kuma, mentre il Principe, in un accesso d’ira, uccide il figlio per poi impazzire mentre infuria la tempesta. Come si vede, un soggetto del tutto fantasioso e improbabile, ma certamente non è neanche questo il peggior difetto: non è molto più realistico Il trovatore – tanto per fare un nome non a caso – o tanti altri pur celebrati melodrammi. Il problema vero è che la musica non riesce a dare unità e carattere alla strampalata vicenda, sprecando le opportunità che, pure, offriva, risultando, alla fine, l’intera opera, un insieme più o meno piacevole di scene e brani del tutto slegati tra loro, senza unità drammaturgica.
Colpa del libretto, certo, inutilmente e dannosamente prolisso ogni oltre misura, dei cui difetti era consapevole lo stesso Čajkovskij, che cercò di porvi rimedio con drastici quanto insufficienti tagli: quel che più colpisce è l’assoluta inutilità di certi passaggi e snodi, sia dal punto di vista drammatico, che musicale, che poetico. Intendiamoci anche a questo proposito, il libretto d’un melodramma molto spesso – direi anzi che è la regola – non brilla certo per poesia o per eccelsa drammaturgia (Sento l’orma dei passi spietati, anche qui tanto per fare un esempio non a caso), ma risponde prima di tutto alle esigenze degli autori di saper condurre il pubblico attraverso un canovaccio che possa incantarlo, meravigliarlo, intenerirlo; non mai annoiarlo o trascinarlo, come spesso qui succede, in un vicolo cieco da cui poi è complicato uscire. Anche certi ottimi passaggi si perdono, in questo modo, nel mare magno della omogeneizzazione e del livellamento al basso; si veda per esempio il “decimino” a cappella verso la fine del primo atto: non sarà il sestetto di Lucia, certo, ma è piacevolissimo e toccante, di diritto uno di quegli incanti (questi sì) in cui improvvisamente l’azione si ferma e vengono rivelati – dalla musica e dall’impasto musicale delle voci che si genera, non già dai versi o dall’azione – pensieri, timore, speranze d’ognuno, momenti che fanno così particolare l’opera lirica. Oppure, ancora, il gran duetto d’amore tra Kuma e Jurij che occupa quasi tutto il terz’atto: non sarà il second’atto del Tristano, ma possiede una dolcezza e, insieme, una forza intrinseca che sicuramente ci fa toccar con mano la potenza creativa del grande Autore. Ma fa quasi rabbia veder poi tutte queste perle perdersi e sprecarsi.

In questa situazione a un regista esperto e di gran talento come l’inglese David Pountney non restavano molte strade per una decente messa in scena: prima di tutto trasferisce la vicenda dai secoli bui del quattrocento russo ai più vicini anni del secolo romantico; poi sterilizza la vicenda da ogni riferimento ad antiche e polverose stregonerie ed incantesimi, evidentemente elementi troppo arcaici, tra l’altro quasi del tutto assenti nella partitura: Kuma non è più “strega” o “fattucchiera” ma semplicemente una rovinafamiglie, “maliarda” e “incantatrice” di uomini. Già che c’è, fa sparire di fatto ogni riferimento visivo al fiume, all’acqua, che pure occupa un posto di rilievo.
Centra poi, il talentuoso regista, il tema portante della sua direzione sulla famiglia e sulla casa: così, mentre l’orchestra suona l’ouverture, dietro un velario osserviamo un bel ritratto di famiglia (disfunzionale) in un interno: in un vasto salone bianco neoclassico – assolate finestre a destra, eleganti librerie a sinistra, archi e porte praticabili sul fondo – il Principe, la sua famiglia e i suoi sodali, tutti vestiti di nero, si siedono attorno a un gran tavolo bianco damascato per la cena. Intuiamo tuttavia, dagli atteggiamenti dei commensali, che i dialoghi si fanno tesi, agli atteggiamenti di prepotenza degli uni risponde l’arroganza di altri, in una situazione di grande, allucinata, silenziosa incomunicabilità e freddezza. Ritroveremo questa stessa riunione familiare al termine dell’opera, intorno alla stessa tavola, imbandita questa volta sulla tomba di Kuma, celebrare il dolore, l’assassinio, la violenza col sangue di Jurij che sporcherà mani e volti di tutti.
Lo stesso salone bianco servirà d’ambientazione per tutte le scene, anche quindi per la maison de plasir di Kuma, rendendone in tal modo la morale – viste anche le premesse che abbiamo detto – del tutto equivalente, se non superiore, all’ambiente della famiglia. Saranno soprattutto i colori fondamentali (tre in tutto, in nome d’una benedetta e unificante semplificazione, a dispetto e riparo dell’enorme, dilatata complicazione della vicenda) a differenziare gli ambienti: oltre al bianco, che è sfondo neutro ed innocente, il nero funereo e lugubre segna inconfondibilmente il Principe, la sua famiglia, il famigerato Mamyrov e i loro lugubri e prepotenti maneggi di potere; il rosso sarà invece il colore della sofferta passione, della sessualità aperta ma non volgare, della libertà vagheggiata e mai raggiunta: segna gli abiti di Kuma e quelli delle sue ragazze, i loro grandi fiori (non credo si pensasse alle rosse camelie di Marguerite), il sangue del sacrificio di Jurij.

Certo, di più il regista non poteva fare, e in qualche modo questa lettura del tutto irrispettosa della parola scritta – che qualche italico sostenitore della intangibilità del libretto avrebbe di sicuro potuto criticare – risulta alla fine essere l’unica possibile per consentire una fruizione decente dell’opera. Anche così le discrepanze ci sono, i momenti di stasi pure, ma quantomeno ci siam potuti fare un’idea di quest’opera e del repertorio operistico minore di Čajkovskij in modo fedele e non traumatico. Inoltre, parimenti interessante, abbiamo potuto, senza muoverci da Napoli, toccar con mano il modo di fare opera della ancor lontana Russia: così Zaurbek Gugkaev, allievo del grande Gergiev, ha diretto a mani nude, come nella loro grande tradizione, un’attenta Orchestra del San Carlo, impegnata questa volta, con successo quantomeno discreto, a cimentarsi con una partitura finora del tutto sconosciuta. Così anche il Coro, protagonista – sembra a sua insaputa – d’una misteriosa polemica con il regista, registrata da alcune testate di stampa. Marija Baijankina è una Kuma dolce e appassionata, cui fa da contraltare la voce piena ed eroica del giovane Jurij di Nikolaj Emkov; il canuto Principe Nikita è, impeccabile e ottimo, Jaroslav Petrjanik, la sua consorte, Principessa Evpraksija, ha la voce piena e addolorata di Liubov Sokolova. Alla fine il pubblico presente, nonostante la lunghezza inusuale e la lingua russa, premia con un prolungato applauso l’impegno di tutti.