Al Maggio di Firenze il fascino tenebroso de “L’affare Makropulos”

Torna al Maggio Musicale, a soli due anni di distanza dall’incantevole Piccola volpe astuta, un’opera definita una “scossa”, per usare le parole del 1929 di Theodor W. Adorno, ovvero L’affare Makropulos di Leoš Janácek, in scena dal 25 ottobre al 2 novembre per la regia di William Friedkin, sulle scene di Michael Curry.

L’opera, emblema del linguaggio originale e maturo del grande compositore ceco, esprime il legame viscerale che il teatro musicale ha raggiunto e instaurato con la letteratura e con i turbamenti propri di un’alienata società europea del primo Novecento. L’autore si fa letteralmente rapire dal testo teatrale di Karel Capek (inventore insieme al fratello Josef del termine robot) e ne elabora personalmente il libretto, dando corpo a una storia surreale che narra il disagio di un’epoca, abbagliata dal miraggio dell’immortalità: essa rappresenta una vetta dell’arte di Janácek, un documento irrinunciabile del suo profondo umanesimo.

Su una partitura rapidissima, fulminante, Makropulos elettrizza, trasmettendo brividi inimmaginabili, attraverso quell’abile alchimia fatta di scambi fulminei di battute ed elementi musicali brevi, lucidi, guizzanti e scultorei, il tutto unito a quegli ingredienti tipici delle più accattivanti trame thriller: accenni, involontarie allusioni, dubbi, interrogativi, silenzi, perplessità, aloni di mistero, dialoghi interrotti, inquietanti rivelazioni, su una musica che racconta più della parola, con contrapposizioni vocali cariche di indizi; il tutto risente di un sottofondo espressionista, legato anche all’ultimo Strauss ottocentesco e persino alle trame Pucciniane.

La regia di William Friedkin ricrea, con un sapiente uso delle luci, l’evanescenza del sogno, con una spettrale lucidità ed un’inquietudine tipica di quella modernità che trapela dalla sequenza di immagini di Rocky Schenck posta nell’ouverture, carica di fantasmagorie. Il tutto trae spunto, come afferma lo stesso regista, dall’atmosfera ipnotica di un capolavoro cinematografico, ovvero L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, fatto di «corridoi lunghi, vuoti, neri» e labili frammenti di memoria che si incarnano senza più ritorno in pose e gesti marmoreamente ripetitivi e assolutamente estranianti, qui legati al terrifico fascino della pluri-trecennale Emilia Marty. Ecco allora la prima scena ambientata in uno studio legale dalle vivide cupezze d’incubo con espressionistiche pile di libri e mobili inverosimili; il secondo atto si svolge invece nel retropalco di un teatro, il cui realismo viene offuscato da giochi di luci e ombre; infine l’ultimo e terzo atto si consuma in una sobria camera d’albergo tra due pareti scultoree e gelidamente bianche, un divano rosso, un baule e due valige, dove la verità viene come estirpata dall’inconscio più doloroso, per quindi bruciare efficacemente tra le fiamme eterne.

Su tutti emerge Angela Denoke, una Emilia Marty di grande intensità drammatica e sensualità, una crudele bellezza alla Marlene Dietrich, con lunghe gambe nude su tacchi alti, capelli corti biondi, abito lungo attillato e tratti spigolosi. Ben delineati sul piano musicale e drammatico anche i personaggi realizzati da Miro Dvorsky (Albert Gregor), Karl Michael Ebner (Hauk), Rolf Haunstein (Dr. Kolenatý), Andrzej Dobber (Jeroslav Prus), Jan Vacik (Vítek), Jolana Fogašová (Kristina), Mirko Guadagnini (Janek).

Efficace la direzione di Zubin Mehta, anche se l’Orchestra non ha risposto sempre in modo puntuale.
Convinti applausi dal pubblico.