
[rating=4] Pantera è un racconto lungo che nasce, nel 2014, dall’incontro tra la penna di Stefano Benni e la matita di Luca Ralli, insieme i due danno vita con parole e disegni ad un mondo buio e silenzioso, al centro della terra, dove sorge la più grande sala da biliardo della città, l’Accademia dei Tre Principi.
Qui lavora il protagonista della storia di cui non si sa il nome ma solo l’età, 15 anni, e la sua scarsa voglia di studiare che lo porta a cercare un lavoretto per tirare a campare.
All’inizio i quarantatré biliardi gli sembrano dei bellissimi laghi di smeraldo, risplendenti sotto la fredda luce a neon della sala ma col passare del tempo inizia a vederli come tombe di quell’umanità malinconica e disillusa che va ogni giorno a rintanarsi sotto terra.
I veri padroni del locale sono però i Tre Principi: il Principe Azzurro, il Principe Nero e il Principe Maggiore; tre pregiatissimi e ambitissimi tavoli da biliardo su cui solo i veri campioni possono giocare sotto lo sguardo vigile dell’anziano Borges che ,seppur cieco, carpisce il talento di un giocatore già solo ascoltandone i passi.
Il protagonista sa però che manca qualcosa in quel mondo rovesciato, manca una donna, anzi una Dea, che non tarda ad arrivare, una sera, senza il minimo preavviso: “snella, flessuosa, pallida. Tutta vestita di nero […]. Nero il caschetto di capelli, neri gli occhiali da diva. Unico colore acceso in quella ben studiata e affascinante tenebra, il rossetto carminio della bocca”.
Pantera è una leggenda del biliardo di cui non si conosce neanche l’età; di lei si narra che da bambina viveva con uno zio che gestiva un bar con un biliardo e che aveva il vizio di ubriacarsi e picchiarla, il bar era diventato per quella bambina un rifugio e nelle notti insonni non le rimaneva altro da fare che giocare a biliardo, qualcuno diceva che aveva giocato ogni notte per dieci anni.
L’aveva salvata da quella vita Rasciomon, un ex galeotto dal cuore buono, che l’aveva presa con sé come una figlia e l’aveva portata in giro per il mondo a sfidare giocatori e a vincere denaro.
In poche sere e con un’incantevole maestria, Pantera batte tre dei più grandi giocatori del locale, Tarzan, Tamarindo e TicTac e la voce del suo arrivo ai Tre Principi si sparge presto attirando avventori curiosi e giocatori lontani, come la mastodontica marsigliese Chiquita e persino l’Inglese, leggenda mondiale delle sale da biliardo, imbattibile già a vent’anni, giunge in città per sfidare la Dea.
Se Pantera è la principessa nera, lui è il cavaliere bianco, biondo e bellissimo, vestito con un impeccabile completo di lino bianco e un foulard color lavanda; anche di lui si sa poco ma anche quell’impareggiabile talento è attribuito a un’enorme solitudine che l’aveva portato a voler lasciare i campi inglesi alla ricerca di una vita diversa.
I due si incontrano mezz’ora prima della sfida e vanno a sedersi ad un tavolo in fondo alla sala, bevono, fumano e chiacchierano, di cosa non si sa. Alle dieci in punto iniziano la partita sotto gli occhi attenti di una folla di spettatori accorsi da ogni parte per assistere all’evento.
Tre partite, le prime due finiscono in parità, l’ultima è quella decisiva; la posta della partita finale non è stabilita, l’Inglese si avvicina a Pantera e le sussurra una frase che pochissimi colgono: “Se vinci avrai duemila sterline, se perdi verrai via con me.”
Il gioco scorre lieve, i due sembrano giocare insieme e non contro, sono sempre pari finché non viene il momento di decidere: Pantera è in leggero vantaggio e, con un po’ d’impegno può vincere, guarda l’Inglese, tira e sbaglia; l’avversario ha la vittoria in tasca ma la posta in gioco è troppo alta pure per lui che sbaglia a sua volta e la dea vince la partita. Di lei si perdono totalmente le tracce e nessuno la rivedrà mai più, lui si toglie la vita il giorno dopo.
L’autore lascia l’amaro commento della vicenda a Borges che ha dalla sua la doppia saggezza data dalla vecchiaia e dalla cecità: i due dèi avevano combattuto la partita della vita non l’uno contro l’altro ma insieme contro la Solitudine e avevano perso.
In questo mondo underground di anime perse e dissolute, Benni colloca i suoi due eroi tragici che con la stoicità greca vanno incontro al loro destino senza tirarsi indietro e lo fa con una scrittura rapida e nervosa ma mai pesante e difficile; riuscendo a cogliere la necessità di ogni short story di essere perfetta e incisiva in ogni sua parte.