Fuocoammare: il mare tinto di rosso al largo di Lampedusa

[rating=3] Il documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, unico film italiano in corsa alla 66esima edizione del Festival di Berlino, ha vinto l’ambito Orso d’oro; Meryl Streep, presidente della giuria ha così commentato la vittoria: “Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario”.

La pellicola racconta infatti il dramma dei migranti provenienti dai paesi del terzo mondo che giungono, a bordo di gommoni, nel mare che bagna Lampedusa e dell’accoglienza e gli aiuti che il popolo lampedusano offre loro.

La narrazione scorre su due binari che, con sorpresa dello spettatore, non si incontrano mai: da una parte ci sono i profughi con le loro storie disperate, le lacrime, i canti di speranza e i lampedusani (i medici, i mediatori culturali e tutti gli esperti) che si occupano di loro al momento dello sbarco e dall’altra parte c’è il popolo, la gente comune, rappresentata dal piccolo Samuele e dalla sua famiglia di pescatori.

Le immagine si alternano sullo schermo: mentre Samuele va con l’amico Mattias a lanciare petardi ai cactus con una fionda, un barcone con duecentocinquanta persone lancia il suo SOS dal mare.

Rosi si sofferma a lungo, forse troppo, su quelle immagini dolorose, di profonda disperazione (basti pensare all’inquadratura di qualche minuto sulla lacrima di sangue di uno degli sbarcati) che però in poco si differenziano dalle scene che vengono trasmesse quotidianamente dai telegiornali; risulta allora toccante, più delle sequenze dei corpi senza vita nella stiva di quelli che non hanno superato la traversata, la scena del medico Pietro Bartolo che fa un’ecografia a una donna di colore tentando di spiegarle a gesti e a mezze parole che i gemelli che aspetta stanno bene nonostante ci sia “sofferenza amniotica, ma è normale perché questa donna ha sofferto tanto” e sempre lui è il portatore del messaggio del film, quando dice: “Ogni uomo, se è tale, deve aiutare queste persone […]. I miei colleghi mi dicono che non dovrei soffrire più quando vedo un cadavere, perché ci sono abituato ormai, ma come si fa ad abituarsi a vedere un bambino, un ragazzino, una donna morti?”.

Il problema del film sta però nel fatto che lo spettatore di persone come Pietro Bartolo all’interno del film se ne aspetta di più e non ne trova. Rosi, che ha vissuto sull’isola per un anno e mezzo durante le riprese, ha potuto probabilmente toccare con mano la grandezza d’animo di queste persone, il loro spirito di accoglienza e solidarietà, la loro generosità dovuta al fatto che sono “un popolo di pescatori e i pescatori accettano tutto quello che viene dal mare” citando le sue parole sul red carpet, eppure non è riuscito fino in fondo a trasmettere questa realtà nel suo documentario.

Fuocoammare

Gli squarci sulla vita della gente del posto, incarnati da Samuele e la sua famiglia, sono poetici e anche distensivi ma non se ne coglie a pieno il senso; c’è una scena ad esempio in cui un’anziana isolana ascolta la radio mentre sta preparando il pranzo e sente la notizia di centocinquanta persone naufragate a pochi chilometri dalla costa lampedusana, commenta con un dispiaciuto “Poverini” e torna alla sua vita, punto. Lo spettatore si aspetterebbe altro, ad un esempio uno slancio di innata compassione che spinga la signora a prendere la pasta appena preparata e a portarla al più vicino centro di accoglienza ma, ovviamente, non lo fa.

È questa la nota stonata di un film che negli intenti supera di gran lunga l’esecuzione, avrà certamente il merito, anche grazie al premio vinto, di attirare al cinema un pubblico più ampio e di costringere quindi più persone a vedere il dramma che si consuma ogni giorno al largo delle coste di Lampedusa, non potendo cambiare canale come si fa guardando il telegiornale. Però penso che Rosi avrebbe voluto e avrebbe potuto dire molto di più, che l’esperienza che ha vissuto in prima persona gli abbia insegnato tante cose e che è riuscito a mettere nel suo film solo una piccolissima parte di esse.

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