
Un Paolo Sorrentino intimo (come non mai) e poetico (come sempre), che nei 130 minuti di pellicola si racconta con una dedica dolce e amara rivolta alle sue origini.
In primo piano la famiglia, sullo sfondo quella Napoli radiosa e straripante di passione, che solo gli anni di Maradona riuscirono a incorniciare e restituire ad antico splendore (almeno calcistico), in un tripudio nazionale.
Questi i due ingredienti simbolici del film È stata la mano di Dio, che Sorrentino attraversa con uno sguardo fresco, come il Fabietto interpretato da Filippo Scotti che sullo schermo lo rappresenta, quasi abbagliato dalla bellezza di un mondo che gli si sta dischiudendo dinanzi e con tanta tragicità improvvisa finisce per richiuderglisi addosso.
La spensieratezza familiare dell’inizio, come fischio al vento, viene prima macchiata dal tradimento, poi dalla tragedia. Il velo della giovinezza cade improvvisamente sullo sguardo di Fabietto che trova comunque la forza per aggrapparsi a quella “mano di Dio”, e guardare al futuro e ad un sogno chiamato cinema.
Premiato con il Leone d’argento Gran Premio della Giuria alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e scelto per rappresentare l’Italia nella selezione per il “Miglior Film Internazionale” agli Oscar 2022.
È stata la mano di Dio è un film toccante che con il tempo si sedimenta, lasciandosi assorbire come una ferita, acquistando un sapore profondo e malinconico, ma estremamente vivo. Una vecchia foto di famiglia ingiallita dalla quale emergono i ricordi e le risa.

Ottimo l’intero cast in una grande interpretazione corale. Tra tutti Toni Servillo che interpreta magistralmente e con ironia Saverio Schisa, sua moglie Maria interpretata da una meravigliosa e autentica Teresa Saponangelo, infine l’eccellente Filippo Scotti, alla sua prima esperienza cinematografica (anche questo è un miracolo) nei panni del figlio Fabietto.
Paolo Sorrentino ci consegna una sceneggiatura e una regia incantevole, bilanciata tra piccoli momenti surreali esilaranti e altri intensi e struggenti.
Memorabile quanto onirica la sequenza iniziale, dove una ripresa aerea stringe sull’auto di San Gennaro volto a fare la grazia alla zia di Fabietto, con tanto di apparizione del munaciello. Così come l’ultima scena del film, (che non sveliamo), a chiusura di un cerchio, tra l’eco di un fischio familiare e il fil rouge del compiersi del miracolo: calcistico, cittadino e umano.