
[rating=4] Ispirato a una storia realmente accaduta, l’ultima grande prova da regista di David O. Russell si ispira alla famosa operazione ABSCAM, un’autentica pietra miliare dello spionaggio internazionale messa su dall’FBI che a cavallo tra Settanta e Ottanta portò all’arresto di una decina di esponenti del Congresso degli Stati Uniti.
Ma fin dalla sequenza iniziale si capisce che questo non è un film politico o pedagogico, né tantomeno un thriller patriottico stile Argo, quanto piuttosto un’analisi della naturale propensione umana al movimento perenne, della sua inclinazione all’autodistruzione. I primi cinque minuti, in questo senso, restituiscono il sapore agrodolce di una pellicola scevra da moralismi: un irriconoscibile e paffuto Christian Bale veste i panni del truffatore Irving si specchia direttamente nell’obiettivo della cinepresa per mascherare la sua pelata in un’acconciatura di dubbio gusto, con tanto di riporto e di extension. Il solito vecchio gioco esistenziale dell’essere e dell’apparire, insomma, servito così, senza impalcature ingombranti, con il consueto stile sporco e sghembo di un Russell che moltiplica le voci over e i punti di vista narrativi. Soggetto non brillante, storia non originale in fondo, ma con quegli attori lì messi a lavorare uno a fianco all’altro tutto è più facile, troppo facile davvero. Un film che si può definire un saggio sull’arte della recitazione moderna che si snoda di fronte a un obiettivo che non cessa di muoversi a spirale, alla perenne ricerca di un centro ideologico, più che narrativo. Una delle migliori prove d’attore della stagione cinematografica senza dubbio: un Bradley Cooper nella parte dell’agente FBI Richie (perennemente) sugli scudi, ma che ci aveva abituato a prestazioni inarrivabili perfino da lui stesso; un Bale in stato di grazia, come la sua compagna sullo schermo Amy Adams, che nella parte di Sydney sdoppia la sua personalità, facendosi “piccola e inglese” nei panni della donna d’affari ed esplodendo in quelli sexy dell’amante americana di Irving. C’è anche un inedito Jeremy Renner, che interpreta un politico d’altri tempi (forse mai esistiti), impermeabile al compromesso e alla corruzione, che si impegna nel suo piccolo per rendere il mondo un posto migliore. E poi c’è lei, Jennifer Lawrence, nella parte dell’isterica moglie di Irving (Rosalyn), che dell’instabilità e dello scatto emotivo ha ormai fatto il suo inconfondibile marchio di fabbrica (il paragone con l’eroina Tiffany de Il lato positivo, sempre frutto della farina del sacco di Russell, è d’obbligo).
Ode e sberleffo sprezzante agli Anni ’70 e all’America che li ha vissuti e divorati, american Hustle è un thriller sui generis. Un evento reale, si diceva, contenuto in una sceneggiatura tenuta per anni chiusa in un cassetto, con su scritto a caratteri cubitali: “vediamo chi ha il coraggio di tirarla fuori”. Detto, fatto. Il tempo di cambiare titolo e di annodare alla Storia di un’America assuefatta di corruzione la storia di un gruppo di disonesti che diventano il simbolo di un’intera nazione di aspirazioni, soprusi e fallimenti.
Spaccato ultra-reale (nel senso di appropriazione e superamento del “semplice” reale) di un crocevia di epoche: quella della zampa d’elefante e delle chiome fluenti con riporto, simboli immortali di un periodo calante ma mai del tutto, e quella della globalizzazione, appena accennata, d’accordo, ma vitale e fervente al punto di inaugurare l’attualissima – e forse superata – abitudine governativa della cosiddette intercettazioni a tappeto. Gli anni della ribellione hanno coinciso per un po’ con gli anni dell’intreccio tra politica e malaffare, con il conseguente carico di tangenti e scambio di favori che ai lettori odierni suonano perfino banali. Alla faccia di chi si sta ancora chiedendo quando si sia guastato veramente tutto.
Montaggio e ritmo che strizzano l’occhio – e forse tutti e due – allo Scorsese (diverso) di Taxi Driver e Fuori Orario, senza mai scadere nell’omaggio imbarazzato e imbarazzante. Anzi. E lo si può chiedere a un Robert De Niro qualsiasi, che oramai non stupisce più per bravura e intensità. I quindici minuti girati nel Casinò ne sono la testimonianza più evidente. Alternarsi delle scene e ritmo narrativo crescono con la tensione e la partecipazione incondizionata dello spettatore, che si ritrova investito di continui colpi allo stomaco da parte dei personaggi. Il risultato? Una fame di film, di vicende ancora maggiore. La macchina da presa fluttua, rotea, quasi in preda a un vagabondaggio visionario e delirante. Lo sguardo sui protagonisti e sulle loro azioni diventa straniante, instancabile, eccitante. Lascia letteralmente a bocca aperta, senza fiato.
Era certamente difficile – e forse proibitivo – ripetersi dopo pellicole superbe e conclamate come The Fighter e Il lato positivo. Ma Russell fa addirittura di più, e si supera come neanche i più ottimisti avrebbero potuto sperare. Ci consegna un film sulla truffa denso nella sostanza e leggero nella forma (ma non troppo), che ti lascia davvero pochi istanti per riprendere fiato. Un’opera corale e pungente, che con apparente semplicità entra negli occhi del pubblico per mano di un regista che ha dimostrato al mondo di non aver bisogno di troppi fronzoli e orpelli per dare lustro alla migliore Hollywood degli ultimi anni. Lo stile di Russell si conferma e si eleva sopra i toni dell’ironia giocosa e candida de Il lato positivo, ormai riconosciuto come un inconfondibile marchio di fabbrica. Insomma, sarà davvero arduo aspettare il Capodanno 2014 per poterlo ammirare nei cinema italiani.
E se l’apparenza inganna, tranquilli. Ci pensa Russell.