Al Vittoriano di Roma il folle genio di Antonio Ligabue

Arthemisia Group porta in rassegna a Roma Antonio Ligabue, genio d'arte, tormentato e solitario, del nostro '900. Fino all'8 gennaio all'Ala Brasini del Vittoriano.

Una mostra che vale la pena di essere vista quella allestita presso l’Aula Brasini del Vittoriano di Roma dall’11 novembre 2016 all’8 gennaio 2017 da Arthemisia Group e dedicata ad Antonio Ligabue, celebre artista del ’900 italiano che tutti conoscono di fama ma di cui pochi intendono a pieno le origini dell’estro creativo.

L’esposizione non è vastissima, appena due sale o poco più e un centinaio di opere, ma è magistralmente ideata per essere esaustiva e accattivante.

Il percorso iniziale di visita fornisce le coordinate anagrafiche e i dettagli dell’origine della complessa vicissitudine esistenziale di un uomo che conosce presto la malattia, la precarietà e lo sradicamento.

La famiglia naturale lo affida ad una famiglia adottiva ma entrambe condivideranno il destino di povertà ed emigrazione e Antonio, sin da piccolo, costruirà barriere emotive molto forti per proteggersi dalla durezza della vita e dalla gente. Il rachitismo e la carenza vitaminica saranno i suoi primi problemi di salute ma poco dopo, sin da giovanissimo, insorgeranno segni di problemi mentali e nel 1917 avverrà il primo ricovero coatto in una struttura psichiatrica.

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Antonio è un disadattato, secondo i comuni standard della società e preferisce gli animali e la natura agli uomini, da cui riceve solo scherno e disprezzo. Tra il 1928 e il 1929 vivrà quindi come un selvaggio tra i boschi e le golene del Po, nutrendo l’amore per l’osservazione naturalistica che poi diventerà il centro della sua produzione artistica a seguito dell’incontro con Marino Renato Mazzacurati, uno dei fondatori della Scuola Romana che lo ospiterà nella sua casa di Gualtieri insegnandogli ad usare i colori ad olio.

Solo conoscendo le origini di Ligabue e l’impietoso inizio della sua storia umana si potrà comprendere il senso di quanto si vedrà in rassegna: animali, autoritratti, disegni ed oli, sono infatti tutti animati dallo stesso male di vivere che ha segnato la vicenda personale di un uomo, da una parte osannato quale talento innegabile dell’arte contemporanea, e dall’altro reietto ed escluso da qualsiasi amore e da ogni contatto umano più profondo. Alla luce di ciò, definire “naif” Ligabue o semplicemente etichettarlo quale “artista segnato dalla follia” diventa riduttivo perché non coglie a pieno le motivazioni che hanno condotto l’uomo alla sua arte. Il primo merito di questa mostra è quindi quello di aver ridato voce alla persona Ligabue per poterne inquadrare al meglio la produzione senza dimenticarne la vicenda umana che ne è alla base.

I quadri esposti prendono le mosse dai primi anni ’20 in cui Antonio comincia a cimentarsi con il disegno, fino ai primi anni ’60, gli anni finali della sua produzione quando ormai il suo nome era conosciuto e la richiesta della committenza più stringente, in vista di un successo annunciato.

Questi 40 anni di opere sono contraddistinte da due filoni tematici.

Il primo è dedicato agli animali, perlopiù esotici e feroci, rappresentati in lotta tra loro per la sopravvivenza, ma in cui trovano spazio anche le bestie domestiche, in questo caso sempre disegnate accanto all’uomo, all’aperto per una passeggiata o, perlopiù, nel lavoro dei campi.

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Il secondo filone, invece, è imperniato sugli autoritratti: Ligabue dedica tantissime opere della sua produzione alla propria raffigurazione, quasi che voglia consegnarci la sua anima. Questa serie di opere non abbellisce il suo volto assolutamente poco vicino ai canoni di bellezza socialmente accettabile, non è un tentativo di migliorarsi o di tramandare un’immagine migliore di sé. E’ una ritrattistica del tormento quella di Antonio che però si concentra sulla costante riaffermazione della propria identità e del proprio talento. Vuole essere certo che si sappia che è lui l’artista, il sempre più noto Ligabue, lui comunque, pure se per nulla bello, pure se segnato da tante ferite.

Gli occhi di Ligabue, negli autoritratti, sono penetranti e acuti, un po’ persi nelle direttrici di follia che ne contraddistinguono l’anima, ma mai distratti, mai smarriti nel vuoto. Sono gli occhi un indagatore attento di una realtà deforme e cruenta, contraddistinta da un’esasperazione visionaria.

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Eppure a questi elementi di espressività si sommano, conciliati di un’antitesi apparentemente impossibile, degli elementi di decorativismo manierista.

E’ così che alla crescente aggressività degli animali rappresentati o del suo volto martoriato dal disagio, alla sempre maggiore forza espressiva e al più intenso rigore plastico che contraddistingue la forma vorticosa delle immagini di lotta e sopravvivenza delle sue fiere, si appaiano la disseminazione di arabeschi e motivi decorativi nei mantelli delle bestie, negli abiti indossati negli autoritratti, nelle foglie della vegetazione oppure negli interni o nelle facciate di case e castelli della produzione finale.

Nelle sue opere questa duplice tensione è sempre tangibile e si sovrappone al progredire dell’incendio di colori e della matericità della produzione, entrambi elementi che prendono vigore – in maniera sempre più evidente – nel corso degli anni. Presto i contorni, all’inizio sfumati, diventano più energici, gli spessori, prima esigui, aumentano, e piano piano migliora anche la sua ottica, comunque definibile come “primitivistica”, presentando caratteri di statiticità e ingenuità che però, sin da subito, lasciano emergere una straordinaria sensibilità creativa.

Il periodo centrale della sua produzione è quello che può, indubbiamente, considerarsi il migliore: l’artista è ormai maturo e abile nel padroneggiamento della tecnica e non ha più bisogno di disegnare la base delle sue opere per poi ripassarle al pennello, i temi sono i più vari, ma ancora la committenza non è così pressante da costringerlo ad una produzione approssimativa pensata per soddisfare coloro che intendevano assicurarsi le opere di un uomo che da lì a poco sarebbe stato certamente quotato.

Il calo qualitativo delle opere dell’ultima produzione riflette senza dubbio questa problematica derivata da una mole troppo ampia di richieste a cui far fronte. E nonostante ciò, Ligabue, circondato da così tanti ammiratori, da avidi mecenati e da semplici curiosi, era solo. La solitudine è proprio la sua cifra predominante: la si coglie negli autoritratti e nell’amore per gli animali che lo lega maggiormente alla bestialità dell’esistere che alla convivialità sociale. Ed è solo e mai compreso fin nel profondo anche lì, al Vittoriano, anche mentre cerchiamo di rubargli un pezzetto di anima…