La fille du régiment nella disarmante semplicità del bianco

Torna trionfalmente a Napoli dopo sessant’anni La fille du régiment di Gaetano Donizetti

La fille du régiment - © Teatro San Carlo - ph Luciano Romano

Ci son voluti sessant’anni per far tornare a Napoli ancora una volta questa Fille du régiment che Gaetano Donizetti, lasciato il Teatro San Carlo nel 1838, scrisse e rappresentò a Parigi due anni dopo: e anche questo si aggiunge al copioso cahiers de doléances che riguarda il tormentato rapporto di odio e amore tra il compositore venuto dalla nordica Bergamo e la città di Partenope. Perché se è vero che la direzione del Massimo cittadino gli aveva donato grandi gratificazioni, anni densi e splendidi, fertili per la sua ispirazione, producendo ben diciassette opere tra cui capolavori assoluti come Lucia di Lammermoor, è altrettanto vero che, soprattutto verso la fine di quella fortunata età dell’oro, molte contrarietà non di poco conto si erano venute addensando minando irreparabilmente il rapporto tra la Città e quello che per molti anni era stato il suo cantore.

Così, dopo aver perso padre, madre e una figlia, la seconda ondata della terribile epidemia di colera che devastò Napoli nell’estate del 1837 – che causò tredicimila morti – gli portò  via anche la moglie e l’altra figlia: rimasto senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli, ebbe pure grossi problemi con l’occhiuta censura borbonica per il Poliuto, poi – goccia che fece traboccare il vaso – gli fu negata la nomina di Direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, che già guidava, di fatto, da anni. Occorreva cambiare aria, Parigi, dove non era di certo uno sconosciuto – il Théâtre italien aveva fatto rappresentare molte sue opere, anche quella Lucia di Lammermoor la cui messa in scena aveva provocato veri e propri episodi di fanatismo – era pronta ad accogliere il suo proverbiale fervore febbrile, provvedendo intanto a trasformare il fatidico Poliuto tanto osteggiato a Napoli ne Les Martyrs, dato all’Opéra nell’aprile di quello stesso 1840 e a scrivere Le Duc d’Albe. Fu in questo clima e con queste premesse che nacque, dunque, una delle opéra-comique più brillanti del repertorio operistico, su libretto di Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges e Jean-François Bayard, collaboratori del grande Eugène Scribe: La fille du régiment è un gioiello del belcanto italiano, giocosa e spensierata, ma al tempo stesso esigente dal punto di vista vocale.

E naturalmente, come spesso succede ai piccoli e grandi capolavori, fu un mezzo fiasco: si mobilitò nientemeno che Berlioz che pubblicò sul Journal des débats una terribile stroncatura in cui si accusava Donizetti di aver riciclato nella Fille parti d’altra opera sua, Betly, straparlando pure di guerra d’invasione da parte di uno straniero, dimostrando, se ce ne fosse il bisogno, come la ristrettezza mentale sovente alberghi pure in grandi ed eccelsi artisti. Non si sa se per la tranquilla replica del bergamasco – si prendesse la briga di aprire il mio spartito di Betly stampato e pubblicato a Parigi – o per chi sa quale fortuito amalgama di fortuite coincidenze, il successo delle repliche fu costantemente in aumento, fino a farla assimilare, nella percezione del pubblico, a un prodotto nazionale, testimonianza della capacità del nostro compositore di adattare, con camaleontica abilità, il proprio stile alle esigenze e al gusto del pubblico per il quale componeva.

Certo in questo caso era aiutato da una struttura musicale che favorisce la leggerezza espressiva e il ritmo teatrale, con grande attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, unendo sapientemente elementi del belcanto italiano con la tradizione francese del vaudeville e della commedia sentimentale, creando un ibrido stilistico particolarmente efficace: la partitura è un esempio perfetto del genio melodico di Donizetti che bilancia con abilità la leggerezza della trama comica con una scrittura musicale raffinata e brillante, ricca di melodie accattivanti e di passaggi vocali virtuosistici e inserendo elementi buffi, come il divertente coro del reggimento, ma senza mai sacrificare l’eleganza musicale.

Così, se da una parte la presenza di quest’opera crescerà nel sentire e nella cultura francese fino al punto che la cabaletta di Marie Salut à la France! assumerà addirittura il ruolo di inno patriottico, consolidandosi l’usanza di rappresentarla nel giorno dal Presa della Bastiglia, dall’altra diventerà in seguito un esempio da seguire per i giovani compositori, come consigliava Jacques Offenbach, alcuni personaggi in libera uscita di parola e di canto come la Duchesse sembrano fatti apposta per evolvere in operetta, magari storpiando il suo famoso Rataplan in Ba-ta-clan, come appunto fece il compositore franco-tedesco.

La fille du régiment – © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

Perché, sebbene La fille du régiment possa sembrare, a un primo sguardo, una semplice opera comica, in realtà nasconde temi più profondi, come quello dell’identità e del senso di appartenenza. Marie, adottata dal reggimento, è divisa tra il suo amore per la vita militare e il suo desiderio di trovare una propria strada personale, la sua figura rappresenta una critica, seppur leggera e ironica, alle rigide convenzioni sociali del tempo, il matrimonio combinato con un nobile, pianificato dalla Marquise, viene visto come un’imposizione, mentre l’amore autentico tra Marie e Tonio, libero da vincoli sociali, emerge come il vero valore da difendere. Nella patria della Révolution française questo insistere sul contrasto tra il mondo militaresco, popolato da personaggi vivaci e coloriti, e quello aristocratico, rigido e formale, che alla base del conflitto comico dell’opera non è di certo secondario, ha una sua profonda ragion d’essere e di sicuro ha forti risonanze nel pubblico di quel tempo e di quel Paese, che di certo non ha dimenticato L’Empereur: solo tre mesi dopo la première de La fille, il re borghese Louis-Philippe ordinò al figlio Françoise di recuperale la salma dell’Imperatore a Sant’Elena e portarla a Parigi, a Les Invalides dove tuttora si trova.

Proprio sulla piena fruizione e comprensione di queste tematiche si basa questa coproduzione tra il nostro bel San Carlo e Bayerische Staatsoper, dove è andato in scena ad inizio anno: la drammaturgia di Mattia Palma che Damiano Michieletto segue nel curare la regia di quest’opera utilizza con somma ironia costumi – che si devono alla matita di Agostino Cavalca – che, se pure portatori del valore aggiunto di una notevole dose di scherzosa fantasia, ci riportano senza dubbio al pieno Settecento, spostando addirittura più indietro nel tempo l’azione che il libretto prevede nel 1805, al culmine della parabola napoleonica, perfino la bandiera più volte patriotticamente dispiegata al vento non è di certo il fatidico tricolore repubblicano ma mostra orgogliosamente al centro i borbonici gigli di Francia!

La genialità della trovata, in apparenza innocua e innocente, sta nel rendere più sottile ma più decisamente pervasivo e prorompente il tema, fondamentale nella piena cognizione dell’opera, del contrasto, voluto e necessario, tra autenticità della vita tra i numerosi “padri” di Marie, vista come sincera e genuinamente “borghese” e invece l’ipocrita “nobile” esistenza tra trine, parrucche e guardinfanti del Secolo dei lumi e dei cicisbei, per il nostro contemporaneo sentire di certo del tutto artificiosamente ricercata o quantomeno ambigua. Siamo ben lontani, dunque, dal mondo bonapartista del libretto, la Révolution è ancora di là da venire e non ci son di certo in giro sanculotti e giacobini, lo spostamento d’epoca della rappresentazione, spesso utilizzato dai registi contemporanei per render più comprensibile trame e tematiche, qui è usato proprio per questo dichiarato fine, pur se in senso inverso. Il che, detto fra noi e a bassa voce, porta anche con sé il non trascurabile effetto collaterale che potremmo chiamare di trompe-l’œil, d’illusione prospettica, che fa sì che chi, sulla sua poltroncina di velluto, guardi l’opera, non corra rischio di sentirsi offeso da provocanti oltraggi all’integrità librettesca come magari sarebbe successo portando la vicenda dichiaratamente ai giorni nostri: in tal modo la traduzione – il tradimento – c’è ma non si vede, almeno all’occhio superficiale di chi vede senza troppo guardare.

Si sviluppa così, al di dentro e al di sotto dell’esile trama dell’opéra-comique, un diverso sentire, un discordante pensiero che delinea una sorta di itinerario da romanzo di formazione che insieme coinvolge i due protagonisti: entrambi proveranno ad assumere abiti che escono dal loro quotidiano e semplice mondo, come attori che assumono diverse sembianze, cambiando d’abito per recitare la propria commedia come su un palcoscenico, il metateatro diventa chiave di comprensione di un mondo e di un itinerario di vita. E così muta, il talentuoso regista, senza darlo troppo a vedere, oltre alla storia anche la geografia di questo strano paese immerso, con l’attiva e feconda complicità del disegno di Paolo Fantin, nel bianco assoluto di una scena essenziale dalla disarmante semplicità: nel primo atto tre quinte che s’incrociano con una pedana, al centro un traliccio praticabile che non rivela subito la sua vera natura, coperto com’è da un velario d’alte conifere, a terra un tronco d’albero come unico elemento di tipicità dell’universo “maschile”.

È un mondo dichiaratamente fittizio e teatrale, che porta in sé lo stigma della finzione ma non della falsità, fatto di improvvisati e ingannevoli palcoscenici dove è possibile desiderare e sperare, come in una favola, che i sogni diventino realtà ma continuamente, pervicacemente, insistentemente negando la propria essenza di imitazione del reale – lasciando che contadini impauriti ne rivelino fin da subito la vera natura, intrufolandosi al di sotto e a lato del fondale – per dichiarare, invece, la propria simulata sostanza, fino alla fine dell’atto, in cui, mentre Marie canta l’addio al suo mondo, si provvede a “ritagliare” la parte centrale del fondale.

La fille du régiment – © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

È già “dall’altra parte”, la protagonista, ha cambiato il suo abito, non ha più la divisa, anche il suo canto non ha più l’indiavolato ritmo militare, mentre ascoltiamo Il faut partir! i soldati prendono quel prezioso rettangolo ritagliato dal fondale, lo arrotolano con cura, lo donano per ricordo dei passati giorni a Marie in una scena di grande e poetica suggestione, appena un attimo prima che il gesto imperioso della Marquise cancelli definitivamente tutto il fondale rivelandoci, al di sotto, il teatro nudo nella sua intima essenza, squarciando così l’ultimo, comodo velo della nostra credulità. Diventerà, quel ricordo ritagliato di fittizia realtà, nel secondo atto, nell’universo “femminile” della casa della Marquise, un quadro incorniciato in oro e avorio: ripete, la scena, con poche significative variazioni, lo schema del primo atto, il tronco innevato ora s’è mutato in poltroncina rococo, unico arredo, oltre all’arpa tormentata da Marie, del bianco che si vuota d’oggetti per lasciare lo spazio dovuto ai pensieri e alle emozioni.

E al sogno: sogna, Marie, un sogno che ha la stessa consistenza d’un tessuto teatrale, al pari di quello effimero, evanescente, destinato a sparire, alla fine, con il crollo silenzioso d’un fondale per lasciar posto alla vita, in casa della Marquise si agitano benevoli fantasmi dell’anima incorniciati dal desiderio e dall’inquietudine. Si crea, come recitando su un palcoscenico, un diverso vissuto che inevitabilmente fonda una nuova consapevolezza, scoprendo e rendendo palese il riverbero di specchi, d’incrociate matrioske, di scatole cinesi che sta appena sotto la nostra percezione, il vecchio gioco teatrale ci prende e ci rapisce di nuovo, svelando non solo Marie a Marie – identità, scelte, coscienza – ma pure noi a noi stessi, persi lontano, laggiù in platea.

Riccardo Bisanti è giovane direttore di gran talento all’esordio nel teatro nostro: la sorte ha voluto che l’ascoltassi per la prima volta diriger proprio La fille alcuni mesi fa al Petruzzelli di Bari, in una performance dal sapore molto francese recensita qui. L’allestimento qui a Napoli è naturalmente molto diverso ma certo ha in comune l’abbandono, fin dall’Ouverture, dei tratti più decisamente militareschi della partitura, quelli per cui si sottolineavano, quando l’opera fu presentata, i modi disinvolti, i tamburi e i rataplàn – per inciso questo è il secondo rataplàn della storia della lirica, dopo quello de Les huguenots di Meyerbeer e prima di quello di Verdi de La forza del destino – che appaiono inevitabilmente smorzati, attenuati, ovattati, in favore di una lettura decisamente meno marziale, più dolce e sognante, in accordo con la drammaturgia registica e le interpretazioni dei cantanti. E tuttavia il ritmo si mantiene alto, a tratti dirompente, in contrasto con l’elegia: in entrambi i casi mi pare che la prova del direttore possa dirsi superata a pieni voti.

Il Coro ha in quest’opera parte importante, è vero e proprio personaggio pur cambiando d’abito e tono – in perfetto accordo anche con lo spunto registico – di volta in volta popolando il paese dei villici tirolesi, il régiment, naturalmente, e poi, nel finale, uno stuolo di dame e damerini in trine e parrucconi: in ogni caso, sotto l’accorta direzione di Fabrizio Cassi, una presenza sempre puntuale, il canto a tratti suggestivo e a tratti ritmato e militaresco. E poi, finalmente, ho potuto vedere e godere un Coro anche drammaturgicamente ben diretto, com’è risultato evidentissimo nelle molte scene che l’han visto prendere il centro dell’attenzione, non solo massa e contorno, ma vero protagonista. A me è piaciuta moltissimo la scena della festa dei contadini, all’inizio del primo atto, in cui viene lanciato in aria un pupazzo impagliato vestito con gli abiti del nemico – citazione del Pelele di Francisco Goya – ulteriore variazione sul tema del vestito e della bambola e di quanto e in che modo l’abito, l’apparire, il personaggio, definisca, e in qual misura, l’essenza, l’interprete, la persona.

La fille du régiment – © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

Riflessione che naturalmente coinvolge in prima persona soprattutto la protagonista, Marie, qui portata in scena da una splendida Pretty Yende, che ho trovato, se possibile, anche più in parte rispetto all’ultima volta che l’ho ascoltata, nei pur notevoli panni in una pregnante Maria Stuarda qui recensita. Frizzante, allegra ma anche pensosa e nostalgica quanto basta, il soprano sudafricano riesce a rendere in maniera egregia il contrasto tra l’essere e il dover essere, tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe o non si vorrebbe, riflettendo, nelle sue arie, il doppio registro emotivo, tra briosa energia e sentimentale tenerezza. Così, se Chacun le sait è canzone da caserma, dove con ritmo marziale e vocalizzi spiritosi sottolinea la sua vitalità e fierezza, il toccante Par le rang et par l’opulence invece mostra il suo lato lirico e malinconico, con linee vocali dolci e sospese, vera romanza dell’identità lacerata, paragonata, dall’accorta regia, a quella di una bambola, che torna, come un leitmotiv, a punteggiare il complesso discorso sull’identità.

Tema che naturalmente tocca anche il protagonista maschile della vicenda, Tonio – incarnato da Ruzil Gatin – villico un po’ zotico, come dice la biforcuta lingua della Duchesse, di cui la regia sottolinea benignamente la diversità, in questo caso assoluta, sia nei confronti del suo mondo, nel natio borgo selvaggio, verrebbe da dire, sia dell’ambiente militaresco di Marie, arruolato per amore come un redivivo Nemorino, sia di quello fatuo e rigido dei nobili cui Marie appartiene per retaggio. Un outsider, dunque, la cui identità tuttavia evolve nel breve passaggio dei due atti, da semplice contadino a eroe amoroso, capace di grandi gesti, fino ad assurgere a figura romantica classica pur conservando la sua vena comica e tenera, anche le arie a lui affidate riflettono tale sviluppo psicologico da ragazzo innamorato a uomo che affronta un rifiuto e lo supera. La prima prova, la famosissima Ah! mes amis, croce e delizia d’ogni tenore con i famosi nove Do acuti messi in fila, momento di pura esuberanza che mette in mostra le capacità tecniche del cantante, viene ben superata dal tenore russo e anche nel secondo banco di prova, Pour me rapprocher de Marie dà buona prova: il timbro cambia, emerge la sensibilità amorosa, con una scrittura più fluida, meno acrobatica.

A far, come al solito, da ago della bilancia tra i due il sergente Sulpice – che Sergio Vitale interpreta con levità e grazia – figura paterna e bonaria che tuttavia bisogna star bene attenti a non ridurre a macchietta: ha una funzione affettiva e protettiva, a metà tra il padre adottivo e il tutore, rappresentando probabilmente il buonsenso popolare in contrapposizione sia al formalismo nobiliare sia al nascente romanticismo dei due protagonisti: musicalmente è il centro di gravità comica dell’opera, dando però spazio anche a momenti di grande effetto, come nel famoso trio Tous les trois réunis, dalle insospette difficoltà ritmiche, qui egregiamente risolte.

Sonia Ganassi è la sussiegosa Marquise, Eugenio Di Lieto il promesso sposo Hortensius, entrambi interpretati con generosa ironia, mentre la Duchesse è una Marisa Laurito in splendida forma: questo personaggio è, da sempre, trait d’union tra l’opéra-comique e l’operezza, perché affidato ad un’attrice e/o cantante non lirica che ha il compito di riscaldare l’ambiente verso il finale, soprattutto grazie a una canzone a scelta che immancabilmente viene poi cantata o ritmata dal pubblico. In questo caso si è voluto fare una scelta diversa, utilizzando le parti in prosa che, come nel Singspiel tedesco, nell’opéra-comique si alternano al canto, ricordando come il pubblico italico sia sempre stato allergico a questi inserti di prosa, al punto che, almeno fino a oltre la metà del secolo scorso, venivano sostituiti dal recitativo, pura invenzione italica, con accompagnamento di spinetta, pianoforte o orchestra.

Michieletto ha così deciso che, diversamente dall’allestimento andato in scena al Bayerische Staatsoper, la Duchesse, fin dal primo atto, sostituisse ai dialoghi una narrazione riscritta alla bisogna in un approssimativo francese molto molto vicino alla lingua napoletana, con cui, in verità, ha ben più di un punto di contatto: al di là dell’effetto esilarante e della bontà dell’esito finale di tale scelta, su cui si può discutere, il risultato è che in tal modo l’idea registica di teatro nel teatro, di disinganno metatreatrale, viene di gran lunga rafforzata. Perché ciò che vediamo dipanarsi sulla scena non è più una semplice vicenda che prende forma sotto i nostri occhi, diventa, mediato dalla Duchesse, racconto di quella vicenda, affabulazione, memoria di qualcosa già avvenuto e che il recitar cantando s’incarica, per il diletto nostro, di far rivivere: la magia del teatro, in altre parole, giustamente premiata con molti applausi e nessun dissenso percepibile dal gran pubblico ieri sera presente.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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la-fille-du-regiment-nella-disarmante-semplicita-del-biancoLa fille du régiment <br>di Gaetano Donizetti <br>Direttore, Riccardo Bisatti <br>Regia, Damiano Michieletto <br>Scene, Paolo Fantin <br>Costumi, Agostino Cavalca <br>Luci, Alessandro Carletti <br>Coreografia, da annunciare <br>Drammaturgia, Mattia Palma / Malte Krasting <br>Marie, Pretty Yende <br>Tonio, Ruzil Gatin <br>Sulpice, Sergio Vitale <br>Marquise de Berkenfield, Sonia Ganassi <br>Hortensius, Eugenio Di Lieto <br>Duchesse Krakenthorp, Marisa Laurito <br>Un caporal, Salvatore De Crescenzo <br>Un paysan, Ivan Lualdi <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Maestro del Coro, Fabrizio Cassi <br>Coproduzione Teatro di San Carlo e Bayerische Staatsoper <br>Opera in francese con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata: 2 ore e 40 minuti circa, con intervallo <br>In scena dal 18 al 27 maggio 2025 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 21 maggio 2025