
Quando si entra in sala, qui al Teatro Petruzzelli di Bari, un velario copre tutto il boccascena: una anziana signora ci occhieggia in bianco e nero, ci guarda di sottecchi pensosa, immersa in un grigio démodé. Si mette in scena, ed è la prima volta per la città di Bari, La fille du régiment, opera in francese che Gaetano Donizetti scrisse per il pubblico parigino nel 1840, lavoro che qualcuno potrebbe definir “minore”, tuttavia rivelatore di una caratteristica peculiare del compositore bergamasco, l’esser capace, cioè, di costante ispirazione lungo tutto lo sterminato corpus dell’opera sua: il 1838 fu anno cruciale per il musicista, dopo sedici anni lasciò Napoli e il San Carlo, la cui direzione pure gli aveva dato grandi gratificazioni, anni densi e splendidi, fertili per la sua ispirazione, che aveva prodotto ben diciassette opere tra cui capolavori assoluti come Lucia di Lammermoor.
Ma la sfortuna sembrava ormai accanirsi contro di lui: dopo aver perso padre, madre e una figlia, il colera gli portò via anche la moglie e un’altra figlia: rimasto senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli, ebbe pure grossi problemi con l’occhiuta censura borbonica per il Poliuto, poi – goccia che fece traboccare il vaso – gli fu negata la nomina di Direttore del Conservatorio San Pietro a Majella, che già guidava, di fatto, da anni.
Nell’ottobre di quello stesso anno era a Parigi, dove sperava di ottenere una stabile sistemazione, sfuggendo ai cattivi pensieri che morti familiari, censura e ingiustizie gli suscitavano, nella capitale francese non era certo uno sconosciuto, al Théâtre Italien aveva fatto rappresentare molte sue opere, anche quella Lucia di Lammermoor la cui messa in scena aveva provocato veri e propri episodi di fanatismo.
Così, come sempre febbrilmente, Donizetti si diede da fare: nel dicembre di quello stesso anno allo stesso Théâtre Italien allestì Roberto Devereux, poi, a gennaio, L’elisir d’amore; per il Théâtre de la Renaissance, nell’agosto del 1839 mise in scena una versione francese della Lucia, poi, per l’Opéra, in ottobre, quel Poliuto che tanti guai gli aveva procurato a Napoli, con il nuovo titolo di Les martyrs; lavorava poi contemporaneamente a Le due d’Albe e a L’ange de Nisida, che poi sarebbe diventato La favorite.

È in questo clima di grande fervore entusiasta – che non poteva non suscitare l’allarme e il risentimento dei colleghi francesi, come Berlioz, che arrivò a parlare di guerra d’invasione, che fa il paio con la difesa dei confini dei nostri giorni, dimostrando che l’uomo non impara mai – che nasce, per l’appunto, La fille du régiment, opéra-comique in due atti che andò in scena al Théâtre Opéra-Comique l’11 febbraio 1840, su un libretto scritto da Jean-François Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges, due fra i più abili collaboratori del grande Eugène Scribe.
Non è nota la fonte da cui è tratto il libretto, ma il tema della trovatella abbandonata sui campi di battaglia, allevata dai soldatacci e diventata vivandiera aveva dato spunto per un’infinità di lavori di vario tipo, in altre parole era un soggetto familiare al pubblico e tuttavia, se pure lo spirito guerresco qui rappresentato è più da operetta che da tragedia, questi soldati più abituati a sfilare tra le bandiere che a combattere, Donizetti riesce a infondere a tutto ciò che tocca, come sempre, grazia e misura, specchio di una perfezione che riesci a intravedere, al di là dei siparietti comici o delle situazioni che, in altre mani, suonerebbero stonate se non del tutto volgari.
E anche nel nostro caso la solita malìa ci sta per rapire, quando in sala finalmente comincia l’Ouverture, prima il corno, poi i legni, infine gli archi disegnano, sotto la giovane ma accorta direzione del Maestro Riccardo Bisatti quello che inequivocabilmente è un paesaggio alpino: l’ambientazione dell’opera è infatti il Tirolo, tuttavia la scena che vediamo, sempre nel film in bianco e nero proiettato sul velario, è tutt’altra.
La signora anziana di cui avevamo visto solo il volto, ora viene assistita da una infermiera che le somministra dei farmaci, comprendiamo che si trova in una residenza assistita, arrivano anche i parenti in visita, il figlio, probabilmente, con la famiglia, moglie e figli, un’ordinaria scena della nostra contemporaneità che tuttavia ha per colonna sonora, potremmo dire, la musica di Donizetti, cosicché i tratti più decisamente militareschi della partitura, quelli per cui si sottolineavano, quando l’opera fu presentata, i modi disinvolti, i tamburi e i rataplàn – per inciso questo è il secondo rataplàn della storia della lirica, dopo quello de Les huguenots di Meyerbeer e prima di quello di Verdi de La forza del destino – vengono inevitabilmente smorzati, attenuati, ovattati, in favore di una lettura decisamente meno marziale, più dolce e sognante.

E questa sembra essere la chiave di lettura di tutto questo allestimento, la direzione orchestrale punta decisamente in questa direzione, accentuando certamente i tratti melodici e nostalgici, che certo ci sono in partitura e mettendo invece tra parantesi quelli guerreschi, in accordo anche con la drammaturgia registica e le interpretazioni dei cantanti. Così, mentre i temi orchestrali si susseguono, osserviamo la credenza nella stanza della signora letteralmente ricoperta di oggetti come può esserlo tutto ciò che sopravvive ad una lunga vita, un po’ come le buone cose di pessimo gusto che Guido Gozzano descriveva appartenere a nonna Speranza.
Comprendiamo che quella signora è proprio Marie, la fille du régiment ormai anziana, suoi sono la statuina della Madonna, la lampada vetusta, il Cervino col paesino e la neve che scende, il cucù dell’ore che canta, qualche raro balocco, il carillon con la damina e la spinetta dorata, la collana di perle, il busto di Donizetti in miniatura in polvere di marmo, una croce di guerra insieme a scatole di farmaci assortiti, al telecomando della tv, a una vecchia radio a transistor, come il poeta rinasciamo… rinasciamo anche noi al mille novecento quaranta.
Perché, mentre si spengono le ultime note dell’Ouverture e le luci dietro il velario cominciano ad accendersi, all’immagine degli oggetti alla rinfusa sulla credenza del filmato si sostituisce la scena costruita su quel modello, la vecchia credenza diventa il palcoscenico su cui rivivere quella vicenda che ora comincia, trasportata e rivissuta, grazie alla magia del teatro e alla regia di Barbe & Doucet negli anni bui della guerra, lasciando l’età napoleonica del libretto per immergerci in una fantasiosa invasione del Tirolo da parte delle truppe francesi.
André Barbe e Renaud Doucet di questa mise-en-scène, che molto deve alla fantasia e alla meraviglia, sono non solo registi – al loro attivo più di quaranta allestimenti molto apprezzati in giro per il mondo – ma anche, more solito, scenografi e costumisti, le loro realizzazioni hanno il sapore di favole antiche, di colori pastello un po’ impolverati dal tempo e resi levigati dall’amore e dagli sguardi, e tuttavia ciò che creano è frutto anche di accurato studio e rispetto dello spirito dell’opera che vanno a realizzare.

In questo caso, per esempio, è molto importante l’epoca in cui Donizetti scrisse l’opera, dopo la presa di potere di Luigi Filippo d’Orléans, il Re Cittadino e Borghese che cercò e trovò la riconciliazione – e il recupero – con il passato napoleonico; poco dopo la prima dell’opera, il corpo di Napoleone fu riportato in Francia da Sant’Elena e deposto a Les Invalides, e questo molto ci dice sul clima in cui cui è stata composta l’opera, che certamente ne risente.
In ogni caso la trasposizione alla Seconda Guerra mondiale consente loro di concentrare il lavoro e la riflessione non tanto sulla guerra, ma sulla memoria della guerra, molte persone che erano giovani a quell’epoca sono ancora vive o lo erano fino a poco tempo fa, come la signora filmata all’inizio del film, è probabile che tutti abbiamo ascoltato da loro racconti ambientati a quei tempi, testimonianza di come, anche in momenti così difficili, si possa in fondo – si debba – coltivare la normalità, il vissuto di un amore, una malinconia sottile che attraversa ogni sguardo e pensiero, una sorta di antidoto alla violenza e alla rovina che regna tutt’intorno: significa, recuperare tutto questo, alla fine, anche dar voce alla speranza che tutto questo non debba più ripetersi e che tornino a spirare venti di pace.
Così, all’inizio vediamo i Tirolesi che si disperano per l’avanzata dei Francesi: è il Coro, affidato al Maestro Marco Medved, che fin da subito interviene come personaggio a sé stante, con varie incarnazioni: è, questa, infatti, opera corale come poche, in cui la massa corale assurge a vero protagonista; mentre qui è soprattutto un coro di donne a prendere la scena con un canto di sapore liturgico, Sainte Madone!, preghiera di fronte alla statua della Madonna, diventata di proporzioni gigantesche, sarà poi prevalentemente il coro maschile a farla da padrone, il 21° Reggimento francese qui in versione alpina.
Ma certo se questo gioiello del belcanto italiano dalla forte influenza francese, giocosa e spensierata e al tempo stesso esigente dal punto di vista vocale, è riuscita a regalare a Donizetti uno dei suoi successi più duraturi, ciò è avvenuto soprattutto grazie ai ruoli emblematici di Marie e Tonio.

È personaggio che da solo vale l’opera, quello di Marie, una delle figure più affascinanti dell’opera comica ottocentesca: cresciuta da un intero reggimento di soldati, è una ragazza indipendente, coraggiosa e piena di vita, lontana dagli stereotipi femminili dell’epoca, straordinariamente moderna per i suoi tempi, giovane donna che sfida le convenzioni sociali e il proprio destino in nome della libertà e dell’amore.
La sua relazione con i soldati, che la considerano una figlia adottiva, è affettuosa e profondamente umana, e la sua determinazione nell’amare Tonio, un semplice contadino, mostra la sua autenticità e il suo rifiuto di piegarsi alle convenzioni aristocratiche, distinguendosi per la sua esuberanza e il suo spirito libero, che si riflette perfettamente nella scrittura musicale di Donizetti: richiede, dunque, interpretare Marie, grande versatilità, e a Giuliana Gianfraldoni non manca di certo: ha gusto, il soprano nato poco lontano di qui, a Taranto, riesce sempre a trovare l’accento più vero, passando con gran naturalezza dai momenti di brillante virtuosismo, come nel celebre duetto Quoi? vous m’aimez? con Tonio, ai passaggi più lirici e intimi. Insomma una gran cantante e una grande attrice e il pubblico la premia con molti applausi.
Tonio, il giovane innamorato, è personaggio pieno di calore e passione, ma anche dotato di una certa ingenuità, qui a Bari ha carne e voce di César Cortés: la sua determinazione a unirsi al reggimento per stare vicino a Marie lo rende un protagonista romantico a tutti gli effetti, disposto a superare ogni ostacolo per amore. Tonio è forse uno dei ruoli più celebri per i tenori belcantisti, proprio grazie all’aria Ah! mes amis con i suoi celebri do acuti. Donizetti, con questa scrittura vertiginosa, riesce a sintetizzare la giocosità e la determinazione del personaggio, creando un momento di pura esuberanza che mette in mostra le capacità tecniche del cantante che, in verità, qui non hanno brillato di purissima luce, forse non tutti i do di petto riescono col buco ma la voce è comunque sempre gradevole e tenera.
Il Suplice di Jan Antem riflette la grande professionalità del baritono spagnolo, che non sbaglia nulla e riesce a infondere sicurezza a tutto il cast, sia dal punto di vista musicale che scenico. E questo certamente vale anche per Sonia Ganassi alle prese con la figura della marchesa di Berkenfield, che rappresenta la nobiltà, tipica caricatura dell’aristocrazia ottocentesca, vista attraverso il filtro della commedia: il contrasto tra il mondo militaresco, popolato da personaggi vivaci e coloriti, e quello aristocratico, rigido e formale, è alla base del conflitto comico dell’opera.
C’è poi da segnalare anche l’inserto, cantato da Natasha Petrinsky, nei panni della Duchesse de Crakentorp, di Vivere, famoso brano degli anni Trenta scritto da Cesare Andrea Bixio e cantato da Tito Schipa, affrontato con grande verve e voce brunita dal timbro scuro, invitando tutto il pubblico a tenere il ritmo battendo le mani: magari non proprio in sintonia con la vicenda ma in qualche modo funzionale al clima di serenità che si è venuto a creare. Non è poco.