Pagliacci: cinque personaggi in cerca del pubblico

[rating=4] Torna Finzi Pasca e il suo Pagliacci qui al San Carlo – nato nella mini stagione estiva del 2011 – e lascia ancora, in chi lo guarda, il sapore della trasognata semplicità d’un giorno d’infanzia lontana: dimenticato sogno di delicato colore. Se poi ci soffermiamo – è il mestiere – ad analizzare scrutare sezionare ragionare scopriremo allora che le soluzioni del regista, intuite poeticamente suggestive, hanno pure solide – seppur invisibili – giuste fondamenta. Da molti si è detto infatti seducente lo spettacolo, ma tuttavia diversa cosa da ciò ch’è andato scrivendo il Leoncavallo cent’anni fa: dov’è il verismo? e il metateatro, e il mediterraneo colore? Bello, il sogno, ma inevitabilmente perso l’acre odore del sudore e dell’umana rabbia– poiché siam uomini di carne ed ossa – evaporato e asceso su nell’aria dove lievi volteggiano acrobati eterei.

La questione ha il suo – almeno apparente – fondamento. A ben guardar tuttavia, il regista destruttura il dramma offrendoci alla vista nient’altro che ciò che il buon musicista napoletano aveva scritto, sotto e dentro l’apparenza verista che lo rivestiva. Non so infatti se Finzi Pasca sia a conoscenza di ciò che van dicendo da un po’ d’anni vari musicologi sul verismo in musica (sostanzialmente negandolo) e su Pagliacci in particolare: probabilmente no – almeno così spero – e la sua è solo benedetta intuizione d’artista: fatto sta che disvela, con questa messa in scena, l’illusione dell’utopia di poter cogliere il vero servendosi d’uno strumento, quale il melodramma, di natura sua molto più vicino al surrealismo che al realismo, molto più al sogno che alla realtà. E dunque il sottile strato di vernice verista di Pagliacci – scritta in cinque mesi come esplicita risposta al successo di Cavalleria, di cui porta impresse le stimmate formali; derivandola in maniera diretta da Le Femme du Tabarin di Catulle Mendès, rischiando per questo accusa di plagio; applicandole un po’ posticciamente in testa il famoso Prologo sol perché il grande Maurel necessitava d’una aria buona da cantare, brano tuttavia col tempo divenuto poi a sorpresa manifesto stesso del reale in musica – con facilità scolorisce e vien via appena si voglia guardare un po’ più a fondo: ciò che rimane è un forte melodramma fin de siècle, trasognato e folle come quel tempo e quell’età; trasognato e folle come la mise en scène targata Finzi Pasca.

Pagliacci al San Carlo_ph Luciano Romano

E, si dirà, il metateatro? Dov’è finito il teatro nel teatro, la rappresentazione scenica di Arlecchino e Colombina e dell’infame e irato Pagliaccio Bianco sembra saltar via, di fatto, diluita com’è nel generale impasto di fantasia e realtà, di veglia e sogno. E così, in effetti, è. Si guardi tuttavia a come fin dal Prologo – anche da prima, in verità, visto che s’è voluto un po’ forzatamente preporre un… anteprologo  al Prologo – tutti i dialoghi siano rivolti non già al fittizio pubblico sulla scena (i villici del borgo) – del tutto dissolto e trasmutato in torma di clown – ma alla platea reale in sala: è a noi che Tonio in veste di Prologo (non cambia nulla in verità) si rivolge e ammicca e guarda, perfino presentando i suoi compagni, personaggi maschere pagliacci in cerca di spettatori, è a noi che Canio pubblicizza il suo spettacolo a ventitré ore (e lo spettacolo è già cominciato, quello fittizio del second’atto è pura recita tal quale ciò che lo precede): il coro in veste di clown non è target del suo spettacolo, ma ne fa parte di diritto. E pure noi siamo invitati all’interno del dramma irreale e stravolto: il disvelamento è completo, le apparenze ingannano, sono soltanto immagini e sogni fugaci che la pioggia laverà via. Metateatro. Metateatro nella sua forma più profondamente arcaica, rottura dell’illusione scenica e del dramma assoluto in cui s’era evoluta la commedia nuova greca: se un nome sovviene alla memoria, dunque, non è Pirandello, ma molto più radicalmente Plauto, naturalmente, con le sue amare farse boffonesche che tanto anticipano – appunto – il clown, la Persona junghiana, la maschera archetipa che sovverte gli schemi e la convenzione teatrale.

Pagliacci al San Carlo

Tutto a posto, tutto tranquillo, dunque? In verità qualcosa forse manca, a questa pur smagliante messa in scena, una caratteristica che fu di Leoncavallo ben più della sottile epidermica apparenza verista: la napoletanità (o meridionalità o mediterraneità). Essa trasuda dalla sua musica, dal turgore del dramma, dall’estrema scoperta teatralità del gesto… tutta questa patente satura essenza meridionale (che tra parentesi è alla base del grande successo dell’opera soprattutto negli States, protagonista napoletanamente Caruso) qui non c’è più. Forse ne acquista l’opera in universalità, ne perde – pensiero mio – in potenza creatrice. D’altra parte, come non lasciare che l’emozione prenda il largo nel veder quegli acrobati volteggiare – volano lassù liberamente a vol come frecce – accompagnando accarezzando la musica: l’uso dei mimi come sottotesto è sempre più diffuso, nel moderno teatro, ma qui forse assume, quest’uso, un sapore del tutto particolare. Perché, certo, essi amplificano il gesto dell’attore, ma partecipano, anche, silenziosamente, all’azione: e il frullar dell’ali – pardon delle mani – ad avvertire Nedda e Silvio avvinti nella passione dell’arrivo di Canio commuove e incanta; e così il difender Nedda dal Tonio infoiato che un dopo l’altro li getta letteralmente in aria: angeli wendersiani che come quelli posseggono l’inutile impotente sapienza degli sguardi dall’alto e dal di sopra.

Pagliacci al San Carlo

Che dire della direzione orchestrale? Parlare di Nello Santi è parlare di un pezzo importante della direzione musicale italiana: gli ottant’anni da poco compiuti non fanno che esaltarne l’aureola di perfezione di questa che ormai è una vivente istituzione. Canio è Antonello Palombi che si presenta un po’ troppo affezionato ad una interpretazione tanto verista da sconfinare nel gigionesco. Peccato perché potrebbe far meglio, anche grazie alla notevole presenza scenica. La voce di Alexia Voulgaridou ha la potenza che ci vuole per una Nedda coi fiocchi, per se la voce manca di fascino e si presenta a tratti anche insicura. Claudio Sgura – come dimenticare il suo Jago nello stralunato Otello di Nekrosius del Petruzzelli del 2013 – è forse il migliore dei tre, impegnato nell’elegante Prologo in frac, nel Tonio in maniche di camicia laido e ritorto, nel Taddeo dalla doppia valenza clownesca ch’arma la mano di Canio. Un cast, in definitiva, adeguato a questo spettacolo così piacevole.

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