
Quando a Jon Fosse, scrittore norvegese, fu assegnato, nell’ottobre scorso, il Premio Nobel per la Letteratura, non si può dire che l’evento fosse del tutto inaspettato – visto che da anni il suo nome insistentemente entrava nella lista dei favoriti – e neanche che fosse autore del tutto sconosciuto in Italia, come invece altri vincitori del passato: tuttavia era sicuramente tradotto solo parzialmente nel nostro Paese, per cui il suo nome non risultava certamente molto familiare al pubblico dei lettori. Invece era certamente più vivo e presente tra i frequentatori dei teatri, visto che Valerio Binasco ha portato sulle scene italiche, negli ultimi vent’anni, altre cinque opere di questo Autore, l’ultima, Sogno d’autunno, nel 2017: arriva allora, anche qui a Napoli, al Teatro Mercadante, a chiudere degnamente la Stagione, quest’opera di Fosse, scritta nel 2002, La ragazza sul divano, e rappresentata per la prima volta in quell’anno stesso al Royal Lyceum Theatre di Edimburgo.
È uno dei testi sicuramente più acclamati e rappresentati di questo Autore, lo vediamo nell’allestimento prodotto da Teatro Stabile di Torino e dal Teatro Biondo di Palermo, nella preziosa traduzione, pubblicata da Einaudi il 27 febbraio 2024, di Graziella Perin: conferma della grande familiarità di Binasco con questo Autore, di cui sa apprezzare e tradurre sulla scena il testo e la fascinazione poetica che lo attraversa, pur così, almeno in apparenza, lontana dalla sensibilità mediterranea, fino talvolta ad apparire fredda, lontana, addirittura scostante. Perché Fosse è poeta del silenzio che interroga, che sgomenta, mutismo della solitudine che non è vuoto esistenziale, come molti degli Autori ai quali è stato accostato, ma invece tentativo di far spazio, nella propria anima, all’esperienza di Dio, centrale nella sua poetica, clamorosa la sua conversione al cattolicesimo, nel 2012, dopo l’esperienza devastante dell’alcolismo e del ricovero ospedaliero: una sorta di riconciliazione. O, per usare una parola cattolica o cristiana, di pace.
Non evitano, i suoi lavori, si badi, temi oscuri, tristezza e morte sono anzi sempre presenti, permeano e danno – in qualche modo – respiro al suo lavoro, tuttavia quando senza pregiudizi riesci ad immergerti in profondità all’interno della sua ispirazione, improvvisamente ti ritrovi nella luce, nell’ineffabile ed esaltante luccicore che squarcia il buio del dolore e della negatività. Nasce romanziere e poeta, Fosse, verso il teatro covava anzi un’aspra diffidenza, il teatro non mi piaceva proprio, trovava la maggior parte delle produzioni teatrali semplicemente noiose e detestava il pubblico borghese che si mette seduto e incrocia le mani con aria compassata: quando deciderà di scrivere per il palcoscenico, il suo teatro sembrerà creato apposta per sconcertare proprio questo tipo di spettatore, disorientato dai significati spesso enigmatici dei suoi lavori e dall’assenza di trama, in cui i personaggi a volte hanno nomi ma sono più spesso chiamati “L’Uno” e “L’Altro”, oppure “Donna”, “Ragazza”, “Madre”, archetipi di ruoli e funzioni.
La sua drammaturgia si nutre anche di umorismo, certo, nell’incrociarsi affastellato delle scene, ma gli stati d’animo dominanti tendono piuttosto al disagio, alla claustrofobia, alla gelosia sessuale, i suoi personaggi spesso faticano a uscire dal proprio guscio di solitudine, vittime e insieme artefici di una incomunicabilità spesso voluta, anelata, desiderata e che spesso ci appare addirittura frutto di faticosa conquista: il teatro ha permesso a Fosse di impiegare il silenzio in un modalità impossibile in prosa, interrompendo dialoghi, costringendo al mutismo, mettendo spesso in un canto la parola parlata perché faccia spazio, reale e metaforico, a una parola silenziosa, taciturna, afona, che lentamente, con fatica, riesca a emergere dietro e talvolta in opposizione alla voce, vincolando anche lo spettatore ad una segreta, sottaciuta complicità.
Spesso, poi, nelle opere di Fosse, stratificazioni temporali si sovrappongono, coesistono in una raffinata unicità che dà ragione della moltitudine che è in noi, perché è ben povera cosa una memoria che funzioni solo all’indietro, il tempo stesso perde i suoi caratteri artificiosamente convenzionali per confluire, come in un buco nero, in una salutare deformazione che viene risolta solo con il ricorso all’arte: così è anche in Ragazza sul divano, in cui la protagonista – Donna e Ragazza al tempo stesso, in una straniante vittoria sulle leggi della fisica – cerca inutilmente di riprodurre sulla tela, combattendo la sua personale battaglia con colori e pennelli, un indicibile che non sa raffigurare: non so dipingere / Se è per questo ho anche smesso di dipingere / molte volte / Ho smesso e poi smesso / E poi ho cominciato di nuovo. Come assumesse la forma del verso, il testo prevede inusitati a capo che rinviano ad una sconosciuta e impervia musicalità, fuori da ogni ordinario tempo e spazio, lasciando che si attesti, più che l’ordinarietà delle cose, quella dei pensieri, delle emozioni, dei vissuti interiori, in una percezione fuori fuoco della realtà, come la chiama Binasco, un grande affresco sull’umanità, di cui è possibile intuire il senso ma senza riuscire, per quanto ci si sforzi, a metterlo a fuoco.
Immerge, allora, Binasco, i paradigmatici personaggi della pièce in una atmosfera rarefatta e quasi surreale – l’unica possibile, verrebbe da dire – tradendo invece la didascalia dell’autore, che diversamente ci rinvia a una grande stanza le cui pareti sono costituite da grandi quadri non terminati: l’atelier di un’artista, in tutta evidenza, reso più caldo e familiare da foto di famiglia e simili. La scena, viceversa, disegnata da Nicolas Bovey, è grande altrettanto, ma ci riporta piuttosto ad una dichiarata freddezza, una sorta di disarmata desolazione che s’imbatte, qua e là, in disadorni mobili ed elettrodomestici usati, sulla sinistra un gran frigorifero bianco bombato, come quelli in uso negli anni Sessanta, accanto un adito verso un locale che si direbbe una cucina, di lato l’ingresso principale dell’appartamento, poi una lavatrice; il tavolo e le sedie, sulla destra, sono di metallo e formica, i più semplici possibili, come i personaggi non hanno altri attributi se non la loro funzione, idea platonica stessa di tavolo e sedie, nudi nella essenziale finalità che li definisce e li crea.
È su queste sedie che Donna sosterà di solito, la sua comfort zone, diremmo, mentre Ragazza rimarrà tutto il tempo seduta pressappoco al centro, sul gran divano del titolo o negli immediati paraggi. I grandi quadri della didascalia originale ci sono, ma appoggiati alla parete sul lato destro, avvolti nel cellophane, sottratti definitivamente alla nostra vista, archiviati per l’eternità in un angolo confuso della scena e della memoria, mentre la grande trovata registica e di scena è quella che a prima vista appare come una nuda parete di cemento grigio, sul fondo, definita da un gran pilastro e da una trave e che invece si rivelerà, fin da subito, fonte d’inusitate sorprese: la parete è il gran quadro che Donna dipinge, Simone Rosset crea su quella tela virtuale abbozzi variegati di dipinti che cedono, via via cancellati, alla risacca del colore e della vita – la ragazza nuda sul divano, certo, e poi navi in tempesta, alberi frondosi, notti stellate – sciogliendosi sempre in un astratto ratatouille d’emozioni e d’impressioni; ma diventa pure, quella falsa parete, se illuminata debitamente, il varco che ci fa entrare nella camera da letto di Madre, dove si consumano i tradimenti e le inquietudini, il violato sancta sanctorum dei Lari e Penati della casa.
Perché poi la storia, se proprio di storia si vuol parlare, è una raggelante mémoire di abbandoni ripetuti, Donna e le sue inquietudini sono il frutto ultimo – come ciascuno di noi – della vita che ha vissuto o che si è lasciata vivere addosso, una ragazza incontrata per strada un giorno qualunque le ha ricordato se stessa raggomitolata sul divano di casa, questa epifania lievita la marea dei ricordi che rompe gli argini, dilaga nel presente instabile, s’incarnano, le stinte emozioni di ieri, di nuovo nella pelle e nel sangue dei corpi d’allora, che adesso appaiono vivi e presenti abitare la stessa casa d’un tempo, Padre sempre assente nei mari del mondo che manda cartoline lasciate sul tavolo in cucina da un altrove chiamato Lisbona, Sorella irrequieta e smaniosa vestita con quelle calze nere e il resto, che cerca fuori di casa consolazioni e tepori, Madre che soffre d’abitar sola in grandi letti lasciati per troppo tempo solitari e allora / non sono forse una bella donna / attraente / anche se ho delle figlie quasi già grandi, Zio che si fa avanti, veniva a casa / sempre più spesso sempre più spesso, poi Padre non tornerà più, se ne va anche Madre, e poi Sorella.
E così ha iniziato a dipingere, prima Ragazza e in seguito Donna, perché sono brava a disegnare, e in tutti questi anni ho sempre dipinto, ha avuto anche un marito, un Uomo con cui condividere ansie e paure o cose che vediamo che poi assumono tanta importanza, più della cosa stessa, come se Dio / volesse dirci qualche cosa / Sempre che esista / già. Ma i quadri sono pesanti, sono troppo grandi / Non trovano spazio, e poi anche con Uomo finisce tutto, Non riesco a stare insieme a qualcuno / E non riesco a stare da sola: la solitudine diventa l’ultima conquista possibile, il dolore – e la pietà – permeano ogni cosa, rimangono i ricordi, i rimorsi, i rimpianti. La regia riesce ad alleviare un po’ il fardello umano di questi personaggi, una famiglia in cui si rifrangono e si riflettono luci e ombre, come sempre, del resto, e in cui ognuno riassume in sé passato presente e futuro in un unicum che è comunque scisso, dando vita e respiro a un solipsismo imperfetto che è moltitudine e sovrascrittura dei molti io che nel tempo si susseguono, cercando affermazione: ci voleva una grande compagnia di attori per rappresentare tutto questo, e l’abbiamo avuta.
Così il Padre di Fabrizio Contri ci restituisce un ritratto di marinaio che vive le sue mutevolezze chiuso nelle astratte profondità del mare, lontano in prospettiva come le terre favolose che visita, troppo perso sul fondo per apparirci reale, perfino la scoperta dell’adulterio viene ingoiata, rigettata indietro in un silenzio assoluto che sa già di morte, la sua apparizione vissuta dagli altri come quella di un fantasma; è protagonista, tuttavia, nonostante la sua taciturna essenza, della scena più dolce, quella di lui ormai vecchio con la figlia già Donna, un dialogo che si nutre di infinte tenerezze in una pièce in cui, per contrasto, non ci sono veri dialoghi, tutti sembrano più che altro parlare a se stessi.
Michele Di Mauro è lo Zio che vive con qualche remora fugace il suo adulterio con la cognata, il cruccio del tradimento gli fa trovare qualche parola di pietà per il fratello, troppo poco per porre freno al desiderio, bruciante, l’interprete riesce a trovare la giusta misura per un personaggio perennemente in pericolo di scadere nel ridicolo della pochade, vittima com’è del demone meridiano sempre in agguato ad una certa età. Il personaggio di Uomo è, fra quelli maschili, di certo il più complesso, giocato dallo stesso regista Valerio Binasco tutto in levare – come lui stesso afferma – nascondendo l’amore e la passione per Donna sotto una patina d’apparente levità sfuggente, o d’incerta e inconsapevole tenerezza, il che non impedisce, a Donna e a noi che sediamo in platea, di vederlo come un’articolata mistura degli altri due uomini, prendendo i desideri e le passioni dall’uno per fonderli con certi silenzi introversi dell’altro, e in questo sta forse il motivo, neppure tanto latente, del fallimento del matrimonio.
Ma certo sono i personaggi femminili che più segnano la visione, che rimangono negli occhi e nel cuore, così pericolosamente sbilanciati in un senso o nell’altro, eccessivi ciascuno in un modo suo proprio: così Giulia Chiaramonte costruisce il personaggio della Sorella tutto intento a vivere le proprie angosce e il proprio dolore proiettandolo al di fuori di sé, consumato in rapporti fugaci che impegnino la carne senza tanger la mente e lo spirito, spingendo il tasto della seduzione verso un eccesso di sfacciataggine, ben sapendo di come troppo spesso i nostri comportamenti possano venir condizionati dalla troppa intensità di certi vissuti negativi, soprattutto nei confronti di Madre, che Isabella Ferrari tratteggia gigantesca e ingombrante, nulla perdonando se non a se stessa, sorta di enorme e mostruosa mantide pronta a divorare chiunque si mostri sul suo cammino, in cui la stessa passione sensuale presuppone un perfetto controllo sul comportamento degli altri e un egotismo con cui rimedia all’incombente angoscia.
Il ruolo di protagonista, irrimediabilmente scisso tra la Donna di Pamela Villoresi e la Ragazza di Giordana Faggiano, è certo il più complesso, la prima interprete di un personaggio spesso sopra le righe, tra improvvisi scoppi d’ira e trasalimenti altrettanto repentini, come un oceano perennemente oscuro e minaccioso d’inattese tempeste, la seconda, che ricordiamo interprete nella passata Stagione d’una strepitosa Figliastra nei Sei personaggi, sempre di marca Binasco, vive le sue incertezze d’adolescente gravata d’un fardello eccessivo di cui non riuscirà – noi abbiamo il dono di vedere, purtroppo, il suo futuro – a liberarsi né, finalmente, a ribellarsi.
Se l’angoscia di Madre e Sorella trovava conforto in fame sessuale diversamente risolta nell’una e nell’altra, per la protagonista invece questa strada risulta preclusa, all’unico Uomo della sua vita si avvicinerà e si allontanerà con circospezione dolorosa: c’è un dipinto di René Magritte, anzi due, La condizione umana 1 e 2, che tutta questa situazione mi ha richiamato alla memoria: non è più il mondo dei sogni, che il surrealismo aveva fino a quel momento scandagliato, il soggetto di questi quadri, ma invece la realtà stessa, anzi il mistero ineffabile che dentro di essa si cela, così il primo quadro ritrae un paesaggio fuori dalla finestra, ma nulla ci assicura che quello sia il vero paesaggio, nel secondo una tela dipinta ritrae una porzione di mare addirittura fuori dalla vista nostra e del pittore.
Il cruccio più grande di Donna è quello di non saper dipingere perché, dice, sa dipingere solo ciò che vede, Dipingo un quadro di una ragazza su un divano / E rimane un quadro di una ragazza su un divano / né più e né meno / Nient’altro: ma non è tanto la dote artistica, che manca a Donna, il suo tentativo di dipingere qualcosa che non rimandi costantemente sé a se stesso fallisce perché non riesce a intravedere il mistero che si cela nel quotidiano, nelle persone che la circondano, in se stessa, perfino, e lo scotoma di questo surplus di realtà le rende alla fine difficile l’arte del perdonare prima di tutto a se stessa, di saper intravedere o immaginare una realtà oltre le mura di quella casa diventata asfittica prigione, non resta che uscire di scena, rifugiandosi proprio dietro i quadri affastellati in disordine sul muro di destra, piano, mentre le luci si spengono.