
Si conclude a Bari al Teatro Piccinni dal 4 al 7 gennaio la tournée di Anna Karenina di Lev Tolstoj, coprodotto dal Teatro Stabile di Catania e dal Teatro Biondo di Palermo per l’adattamento di Gianni Garrera e Luca De Fusco che ne ha firmato anche la regia. L’adattamento di un capolavoro della letteratura è una sfida per registi coraggiosi, specie se il romanzo in questione è un testo di più di mille pagine. Non è un caso forse che l’unico tentativo di trasposizione teatrale dell’opera risale al 2008 per la regia del lituano Eimuntas Nekrošius con Mascia Musi come protagonista. Eppure in questo allestimento sono riusciti in due ore e mezza nell’impresa di rispettare gli snodi cruciali della storia e la polifonica architettura narrativa delle storie d’amore parallele che in certi passaggi si incontrano, si rispecchiano e talvolta sono pendànt dell’altra. Al centro l’eroina tragica e romantica che sfida le convenzioni della società conservatrice e puritana della Pietroburgo ottocentesca, senza dimenticare le dinamiche relazionali delle tre coppie, metafora delle diverse sfaccettature dell’amore: quello dannato e pieno di passione nel triangolo Anna (Galatea Ranzi) , Vronjskij (Giacinto Palmarini) e Karenin (Paolo Serra), quello penoso e deludente di Stiva (Stefano Santosoago) e Dolly (Debora Bernardi), e quello più sereno ed equilibrato di Levin (Francesco Biscione) e Kitty (Mersila Sokoli).
La scelta stilistica più azzeccata, per amplificare gli stati d’animo dei personaggi, sicuramente è stata quella di proiettare su un velo nero le immagini delle scene determinanti e dei primi piani degli attori a far da contrappunto cinematografico alla recitazione teatrale. Ad accompagnarle le suggestive musiche di Ran Bagno. Questa partitura visivo-musicale è ormai diventata la cifra stilistica di Luca De Fusco. Non convince invece il tentativo di valorizzare la parola, per restituire la matrice letteraria del testo, con la scelta di far recitare agli attori i propri stati d’animo e le parti narrative in terza persona. Infatti la lezione del Ronconi del “Pasticciaccio” con gli “a parte” rivolti al pubblico sospende il coinvolgimento emotivo e raffredda il pubblico. Anche la recitazione manierata, d’accordo, in linea con il contesto storico in cui è ambientata la storia, non aiuta ad empatizzare con i personaggi e si rimane sempre un po’ sulla porta, come ospiti impacciati.
Galatea Ranzi ha saputo dar forma alla prismatica personalità di una protagonista che sfida il trascorrere del tempo, attraversando tutte le sfumature di un forte sentimento, passando dalla seducente esuberanza di quando scende dal treno di Pietroburgo con un gioioso scintillio negli occhi, alla tremenda passione che s’impadronisce di lei fino alla disperazione più cieca che la conduce al tragico epilogo. Tuttavia la sua interpretazione risulta poco carica di quell’intensità che ci si aspetterebbe, tranne nel finale, forse perché troppo concentrata sulla tecnica. Non si viene trascinati nella storia ma lo spettacolo ha il pregio di imporci una riflessione sui passi che la donna ha dovuto compiere sul lastricato percorso dell’emancipazione e su quanta strada c’è ancora da fare in alcune società contemporanee, inchiodate in un passato remoto stantio. Inoltre la scelta di portare in scena un caposaldo della letteratura russa in un momento storico delicato per quanto riguarda i rapporti tra la nostra cultura e quella russa è il messaggio importante che la compagnia vuole dare: niente può oscurare la preziosa eredità della cultura e della letteratura russa.