
Al teatro Metastasio di Prato il 21 Aprile abbiamo assistito al lavoro di Civica con la produzione dello stesso Teatro Metastasio ed il sostegno di Armunia di Castiglioncello. Armando Pirozzi attraverso gli strumenti tipici del genere farsesco costruisce una struttura di base con tutto l’armamentario consueto di questo stile: ciclici rimandi testuali, “i tormentoni”, la macchina dei colpi di scena che spiazza e rivitalizza il ritmo, il “girotondo dei personaggi”. Compie sicuramente un significativo lavoro che sta a significare un gioco.
Col pretesto di una trama ovviamente improbabile, grottesca e surreale, soluzioni che servono solo a far emergere un intreccio di relazioni sociali, lo specchio in chiave comica del teatro degli eventi che ci circonda. Un Donald Trump con Kim Jong-Un (tanto per citarne due stranieri) non avrebbero sfigurato nel cast interpretato da ottimi attori. Tutti bravi nel supportare una regia di Civica piena di spunti interessanti e trovate che ben si adoperano alla sua intenzione proclamata: “…non vogliamo far ridere a denti stretti, ma a bocca larga…”. Qui la misura del successo o meno dello spettacolo è direttamente proporzionale alle risate del pubblico e nelle note di regia si abbraccia pienamente questo metro di giudizio. Lo si autorizza alla sentenza contenstuale.
Ci soffermiamo quindi sull’effetto divertente che si è riusciti a creare attraverso i ritmi in sincrono dei “potenti” Giorgetta e Giocondo, efficacissimi in molte parti dello spettacolo e davvero affiatati nel rapporto che li contraddistingue. Divertente è anche la brama spregiudicata ed assolutamente arrivista della coppia dei “sottomessi” Pippo e Betta capaci di ogni azione pur di perseguire la loro agognata fetta di ricchezza all’ombra anche dell’omicidio se necessario e con totale assenza di rimorso perchè temprati da una sanguinosa lotta giornaliera “..nelle Termopili della Crisi…” . Il fascino del giusto, magari perdente, l’eroe che salva la propria umanità per il bene qua non solo non è considerato ma perde di ogni senso, non è mai esistito, non conta nella storia con la S maiuscola.
In Belve oltre ad essere evocata quella che è la tradizione della farsa presente da Plauto, Wilder, Feydau, Ionesco, Eduardo e che è stata la formazione di attori come Chaplin, Keaton, Totò, Magnani, si sente con forza l’influenza di ciò che arriva dal cinema, dai Simpson’s, dalle serie tv. Forme di comunicazione che hanno cambiato le regole del comico di fatto annullandolo come possibilità teatrale se si procede nel tentativo di sortirne gli stessi effetti. Qui verrebbe da chiedersi che senso abbia creare oggi una farsa teatrale con un impianto scenico classico se non nella volontà di affermarne la morte.
Civica definisce questo tentativo come un confronto-apprendistato ed afferma di voler inserire nella griglia strutturale tipica, dei personaggi veri, vivi, che parlino allo spettatore odierno. Ritengo che l’opera contenga molto buon materiale ma che risenta proprio dell’essere un apprendistato. Non si è riusciti a centrare quello che è il bersaglio proclamato. Una farsa, quando l’ingranaggio parte a macinare non lascia respiro e vi sono comici a teatro che hanno un mestiere tale da quasi non dare spazio tra una risata e l’altra. C’è ancora da rodare molto. Si può obbiettare che il testo infine si preoccupi d’altro, di questioni filosofico-sociali importanti.
La riflessione dei due autori ruota intorno al fatto che la Farsa parli principalmente delle dinamiche del potere e dei suoi rapporti di forza basati unicamente sul denaro e sulla natura crudelmente classista di questo impianto sociale. Tali dinamiche si ripetono generazione dopo generazione, da sempre dalla comparsa del “brodo primario”- verrebbe da dire – come se la “razza” dominante fosse dotata di una particolarità genetica che la rende sovrana.
Queste le indicazioni chiare nello spettacolo, dove la sudditanza di una coppia di assoggettati ad un’altra coppia di potenti, si svela immediatamente come una lotta tra belve, tra animali di pari ferocia separati solo dagli armamenti in possesso: i soldi di famiglia. Ovviamente i deboli sono pronti ad utilizzare ogni mezzo per ribaltare la situazione. Ma sono di fronte all’impossibilità di uccidere il “regnante”, che si perpetua e non muore. Come le dinastie di Potere. Solo l’agnizione finale potrebbe creare il necessario lieto fine. E’ in gioco la natura speculare dei due antagonisti in gara, animali che si annusano e si riconoscono, si rispettano anche, concordando la propria identità che non può fare famiglia, censo, casta, se non per un legame di sangue che siglando un’appartenenza naturale si sottolinea però come privo di amore ed orribile possibile passaggio di testimone tra genie di Belve presenti e future. Certamente una denuncia teatrale. E cosa ci sarebbe da ridere? E’ la manifestazione di una tragedia che ci circonda che si mette in scena! Per noi non si ride abbastanza. E non a causa del tema trattato. Alberto Sordi, citato da Civica, diceva che “…la nostra realtà è tragica solo per un quarto, il resto è comico. Si può ridere quasi di tutto”. Il quarto a cui lui accennava a quei tempi si è probabilmente assottigliato tra l’altro. Aprire una parentesi su tutto ciò che è ed è stato dove l’arte, si intende come capace di generare altri stili di pensiero e di vita oltre che di teatro sarebbe interessante, ma forse non qui dove le Belve davanti a noi, come in uno zoo od in un acquario si muovono divertenti e fiere, pronte a colpire ed a colpirci.