
[rating=2] È nel 1982 che Maurizio de Giovanni decide di ambientare la sua riscrittura di Qualcuno volò sul nido del cuculo, la pièce – tratta dal romanzo di Ken Kesey del 1962 – scritta per Broadway da Dale Wasserman e resa famosa anche in Italia dal famosissimo e pluripremiato film di Miloš Forman del 1975 con un indimenticabile Jack Nicholson. Tuttavia, se deciderete di andare a vedere questo allestimento che ha inaugurato la Stagione al Teatro Bellini qui a Napoli, per la regia di Alessandro Gassmann, dimenticate quel film, e lo dico a quelli della mia età che ben lo conoscono e a cui, scommetto, è rimasto indelebile nella memoria, segnando probabilmente un’irripetibile stagione della vita: sarebbe altamente fuorviante paragonare questo a quello, fonte di confusione e probabile sconcerto, com’è, in fondo, capitato ieri sera al sottoscritto, uscito dalla sala del bel teatro napoletano con minori baldanze e certezze di come fosse entrato.
E non certo perché l’allestimento prodotto dal Bellini sia di fattura inferiore al suo maggiore (nel senso dell’età) cugino cinematografico, ma perché altri e diversi, a ben vedere, ne sono i temi, le tensioni, le tesi e le conclusioni; soprattutto, ad essere irrimediabilmente cambiata, è l’epoca, il contesto, anche perché il 1982 di de Giovanni è data di comodo, derivata dal fatto che ormai in Italia i manicomi, almeno quelli classici così descritti non esistono più, e quindi possiamo tranquillamente considerare la storia narrata come del tutto a noi contemporanea, vicina a noi nel tempo oltre che, naturalmente, nello spazio, essendo ambientata nel manicomio di Aversa.
La scommessa di de Giovanni e Gassmann, è quindi duplice: tentare di recuperare una Grande Storia (“Le Grandi Storie si riconoscono subito… vanno direttamente a ferire la superficie dell’anima e lasciano un’indimenticabile, meravigliosa cicatrice” dice l’autore) e, trapiantandola nel nostro feriale quotidiano, osservare, quasi con scientifica passione, se “potevano sopravvivere le amicizie, i rancori e le tenerezze di questa meravigliosa e delicatissima Storia”: di un esperimento, dunque, stiamo parlando, di un tentativo di recupero d’universalità che molto andrebbe al di là della notazione banalmente cronicistica e del tutto accidentale; la Storia del giovane delinquente capitato per caso in una struttura sottoposta a rigidissimo controllo formale assurge dunque a paradigma, modello, archetipo. Inoltre, soprattutto da parte di Gassmann, forte viene avvertita l’esigenza di energica e pronta denuncia sociale, in un momento in cui, e la coincidenza non è casuale, i grandi Opg stanno definitivamente chiudendo e forte dovrebbe essere la preoccupazione per quelle persone che con algido tecnicismo vengono chiamati “residui manicomiali”.
Ottime intenzioni, dunque, come si vede; nel film del ’75 veniva avvertito come primario il tema della malattia mentale e del metodo che allora si utilizzava per “curarlo” (il manicomio e tutto ciò che ne derivava, dall’elettroshock alla lobotomia), ponendo al centro della scena la fortissima esigenza di libertà e quindi di ribellione alle regole che la società (e in particolare quella americana) imponeva, dentro i manicomi ma anche fuori di essi, pur con l’uso della forza; nella drammatizzazione di de Giovanni il tema della libertà continua ad essere centrale ma, evidentemente, con un senso del tutto diverso: i pazienti, si nota in un momento cruciale della vicenda, non sono lì perché costretti da qualcuno, ma per loro libera scelta, nessuno li costringe o li tiene in prigione, la nostra ipocrita ed ipergarantista società non lo permetterebbe di certo. Dunque, se si rinchiudono da sé in manicomio, è perché schiavi della paura del “fuori”, del mondo che è al di là di ogni controllo, talmente grande e potente che perfino il gigante Ramon, che si finge catatonico per rimanere lì, si sente piccolo e inadeguato: la paura è così forte da accettare perfino di essere schiavizzati dalla candida e incontaminata Suor Lucia. Non è da poco questa differenza, anzi è un vero e proprio capovolgimento copernicano, perché se nel film la ribellione del protagonista nei confronti dell’ostinata caposala assurgeva a metafora della lotta rivoluzionaria contro le assurde e liberticide incomprensibili regole, nella nostra contemporaneità la lotta dovrebbe essere rivolta, per quanto detto, non già alla pur odiosa infermiera, ma, più comprensibilmente, alla paura, all’angoscia dell’esistere, a certe alienanti modalità del vivere, contro le quali, tuttavia, ben poche armi ha l’arrogante delinquentello dei quartieri, che anzi appare molto funzionale al sistema e al mondo, ad esso del tutto conforme, tanto da rimanere senza parole di fronte alla incomprensibile passività degli altri: “Fuori… potresti metterti a fare i film pornografici… o il camionista”, o lo spacciatore di droga, o il magnaccia, o qualsiasi altra cosa, in una profonda inconsulta incomunicabilità che avrebbe potuto essere meglio esplorata dall’autore e che probabilmente è fonte di gran parte delle perplessità suscitate dalla visione.
La regia di Alessandro Gassmann è stilisticamente chiara e senza fronzoli, come la scenografia di Gianluca Amodio: ambienti grigi e spogli – che tuttavia non soffrono di claustrofobia grazie a due enormi vetrate che si aprono ai lati del scena – descrivono una vita rassegnata e povera di emozioni e tuttavia tranquilla, com’è in effetti quella dei sei ospiti “acuti”, descritti con estrema vivacità e leggerezza tanto da renderceli fin troppo – e con non eccessivo rispetto per il vero – simpatici fin dall’inizio, sì che spesso scivola l’archetipo nello stereotipo.
Lassù, in alto, le celle sempre chiuse degli invisibili “cronici” son di quando in quando oggetto di citazione da parte degli “altri”, ma, invero, d’alcun disagio; magari questo poteva essere altro spunto buono, mentre si preferisce sicuramente, non senza successo, inseguire l’effetto cinematografico o il suo equivalente, col sapiente gioco delle luci (di Marco Palmieri) che sostituisce, indugiando di volta in volta su questo o quel personaggio, il primo piano, o con l’efficace vera e propria colonna sonora (di Pivio & Aldo De Scalzi) che sottolinea con effetti acustici ogni momento dello spettacolo, o con le videografie (di Marco Schiavoni), proiezioni sul telo trasparente posto al boccascena, a volte evocative dei nascosti pensieri di Ramon, a volte – con qualche scoperta ricerca del facile applauso – descrittive di fantasie collettive, com’è il caso del goal di Tardelli dell’immaginata telecronaca d’una proibita partita di calcio televisiva (di per sé, comunque, uno dei momenti migliori). E proprio quel velario forse contribuisce inavvertitamente a smorzare un po’ l’emozione, posto com’è a sottolineare involontariamente la quarta parete, a renderla tangibile, se non visibile, a non lasciar trapelare, attraverso la pur inconsistente trama, partecipazione, calore e coinvolgimento e a sconfessare, in tal modo, l’intenzione dell’autore e del regista, che rimane come indefinitamente sospesa dall’altra parte: la vediamo, certo, in trasparenza, ma non ci rende del tutto partecipi, come se passivamente la subissimo attraverso lo schermo della televisione.
Fino all’ultima scena, fino allo schermo virtualmente infranto da Ramon che – forse inconsapevolmente – cerca di far saltare quella sordina, quel soffice ottundimento dell’animo che dall’inizio pesa sottilmente su tutta la rappresentazione, che, comunque, si avvale dell’ottima interpretazione di tutto il cast: dal protagonista Daniele Russo che ci restituisce il perfetto ritratto d’un arrogante prepotente imbroglioncello di strada, all’antagonista Elisabetta Valgoi, perfetta Suor Lucia che vive affidando a rigidissime regole le sue probabili personali angosce nevrotiche, al gruppo di attori che disegnano con consumata perizia il variegato gruppo dei pazienti: Gilberto Gliozzi, Mauro Marino, Daniele Marino, Marco Cavicchioli, Alfredo Angelici, Giacomo Rosselli, a quello che invece interpreta il personale del nosocomio, Giulio Federico Janni, Gabriele Granito, Antimo Casertano, e poi Giulia Merelli nel doppio ruolo dell’infermiera e della giovane prostituta. A loro l’insistito e lungo applauso del pubblico che affollava la prima del Bellini.