Un Avaro noir specchio dei nostri tempi

Magistrale Ermanna Montanari, Arpagone en travesti nel Molière di Martinelli al Fabbricane di Prato

[rating=5] Quando pensiamo ad un classico di Molière come L’Avaro, subito la nostra immaginazione ci porta alla mente enormi parrucche, sgargianti vestiti settecenteschi e una scenografia ridondante e sfarzosa di una classica abitazione aristocratica. In definitiva il classico canone estetico e drammaturgico del teatro da prosa.

Contrariamente la scelta coraggiosa di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari del Teatro delle Albe nell’affrontare il testo, vira nella direzione opposta, il tutto senza cambiare di una virgola dalla splendida traduzione di Cesare Garbali.

Infatti il testo scritto nel 1668 da Jean Baptiste Poquelin in arte Molière (ispirato all’”Aulularia” di Plauto) che narra la storia proverbiale dell’avaro Arpagone, resta intatto. Tutto il resto cambia, a partire dall’interpretazione di Ermanna Montanari nel ruolo di un Arpagone en travesti.

L’azione ha inizio con le luci ancora accese sulla gradinata del Teatro Fabbricone di Prato, dove un pubblico in fase di sistemazione e di chiacchiericcio pre-spettacolo osserva distratto tre attori vestiti da macchinisti impegnati nello svuotamento dello spazio scenico. Tolgono tutto, da il tavolo d’epoca, ad una televisione che proiettava il live degli spettatori in sala, dai riflettori, ad un pezzo di parete di un interno con una finestra, da un plastico di una casa stile “porta a porta” fino a delle lettere scomposte sul pavimento. Rimane uno spazio vuoto, nero, avvolto da teli scuri che racchiudono lo spazio scenico. Questo ambiente disadorno diviene la casetta di Arpagone, luogo austero e rappresentativo dell’intimo del suo padrone, scenario dell’avara commedia.

Un oggetto su tutti spicca in ogni quadro della performance, è il microfono usato per dar voce alla Montanari/Arpagone, vero scettro del potere del padre padrone di casa, megafono per imporre idee, per persuadere e governare, simbolo tentatore per tutti i componenti della famiglia che mendacemente ambiscono a impadronirsi della “voce del padrone”, del denaro e del potere di Arpagone.

Un Avaro malvagio e sinistro ritratto di un presente dove il denaro, il perbenismo, l’ipocrisia e l’egoismo sono gli impulsi dei rapporti sociali. Ermanna Montanari fa rivivere un Arpagone atroce, cadenzando toni persuasivi e pungenti e trasformando l’avarizia in metafora: avidità di emozioni, di scrupoli, assenza di bontà, indifferenza.

Bravissimi tutti gli attori, tra i quali è da segnalare la recitazione energica di Roberto Magnani nei panni di Cleante, figlio di Arpagone.

Perfetta l’interpretazione di Ermanna Montanari, affilata nell’avarizia come un pugnale pronto a sferrare il colpo. La magnifica attrice più volte premio Ubu, si muove nelle vesti nere di Arpagone con parsimonia, in un’economia minimalista di gesti che denotano grande padronanza della parte, anche la sua voce è avida, arida di respiro e di emozioni, con la quale esplora le profondità con toni tenebrosi e rauchi, che sembrano provenire dall’oltretomba.

L’ardua scelta della regia di Marco Martinelli risulta sicuramente vincente, con dinamiche sperimentali e di rottura, come le ripetizioni delle azioni dei personaggi incapaci di fermarsi, simili a marionette nelle mani di un esperto puparo. Sarà il regista stesso, come un deux ex machina, in un lieto fine dichiaratamente artefatto, ad accendere le luci in sala e scendere dalla gradinata sul palcoscenico per salvare i personaggi da un tutti contro tutti, che profuma di reality televisivo.

Questo finale in luce spinge lo spettatore pienamente all’interno della narrazione e lo rende ancor più partecipe e complice, ricordandogli che quanto ha appena osservato non è altro che la cruda realtà che lo attende appena oltrepassata la porta del teatro.