Ubu Re – cluso a Sollicciano

[rating=4] 30 giugno 2015. Si aprono i cancelli del carcere di Sollicciano (Scandicci) e va in scena, in prima nazionale, UBU RE, una ripresa del celebre testo di Alfred Jarry, nella versione curata dalla Compagnia di Sollicciano, regia e direzione di Elisa Taddei (Krill Teatro).

Compreso nel programma Teatro e Carcere, il progetto è sostenuto dalla Fondazione Carlo Marchi e dalla Regione Toscana.

Unica grande maschera di latta, che recupera l’originaria intenzione di Jarry, di costruire un fantoccio-marionetta, Padre Ubu agisce lo spazio nella sua totalità: palco, retro palco, golfo mistico. Il suo corpo è una cella semiaperta e semovente, in cui si agita l’intero gruppo di attori detenuti (in carcere come nel personaggio) e vera sintesi dell’essere pirandelliano (uno, nessuno, centomila). Ciascun attore, a turno, occupa il sedile al centro della cella, parodia dell’agognato trono, incarnando le varie nuances di uno dei personaggi più interessanti e controversi del teatro contemporaneo internazionale.

Ubu Re

Dialoga con il coro di Padre Ubu l’ottima Ilaria Danti, unica interprete, per converso, di una Madre Ubu grottescamente crudele e goffamente ambiziosa. Mobilità espressiva e frequenti modulazioni vocali sono il mezzo con cui l’attrice si contrappone al coro di voci e corpi maschili, sostenendone i ritmi e la potenza fisica. È una relazione giocata sui contrasti: numerico (uno-molti), prossemico (interno-esterno, alto-basso, distante-vicino, libero-recluso), mimico (maschera di latta-volto umano) e di colore (il verde militare degli uomini contro il rosso fuoco del completo da ussaro della donna). Alto è anche il livello interpretativo dei vari Padre Ubu: attori preparati, dotati di talento ed entusiasmo.

La semplicità della scenografia, sotto la guida di Francesco Givone, non compromette in alcun modo l’efficacia scenica: il fondale verde, che delimita il piccolo palco, talvolta si apre, scoprendo un retroscena animato da teli verdi e burattini di latta; questi ultimi realizzati in collaborazione con gli studenti del Liceo Artistico di Porta Romana, curatori, anche, del materiale promozionale dello spettacolo.

Mossi, come le onde del mare, i teli dividono il palco in tre vie: parti di un percorso serpentinato che origina una progressione spaziale e temporale tipica dei canoni pittorici medievali. Lo spazio, ancora, non ha soluzioni di continuità: così il coro è connesso al palco da una rampa, quasi uno scivolo, e costantemente agito dagli attori. Altrettanto, la platea diviene il luogo dell’interazione tra i detenuti e il pubblico, coinvolto nel “massacro” della famiglia reale, come fosse un gioco da luna park. E poi danze, musica e dissacrante ironia.

Ubu Re

Dal punto di vista tecnico e artistico, dunque, i detenuti di Sollicciano non hanno niente da invidiare alle compagnie di professionisti e lo spettacolo, egregiamente orchestrato dalla Taddei, è assolutamente godibile e di alto livello. L’unica perplessità che emerge è relativa alla scelta di un testo così controverso che, dato il contesto in cui viene presentato, potrebbe, certamente non in maniera intenzionale, produrre effetti non esorcizzanti, bensì apologetici, rispetto alla violenza che rappresenta.

Siamo altresì certi che, rivolgendo in futuro maggior attenzione a questo aspetto, la Compagnia di Sollicciano, già tanto cresciuta dal lontano 2004 della sua fondazione, e grazie alla sapiente guida di Elisa Taddei, che tanti risultati è riuscita a produrre negli anni, potrà crescere ancora e raggiungere vette interpretative degne del miglior professionismo. E chissà che il prossimo UBU non diventi presto un premio.

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