
[rating=3] Sono abbastanza vecchio da aver visto Sinfonia d’autunno al cinema, quando uscì nelle sale italiane, alla fine degli anni settanta: ricordo, d’allora, l’accapigliarsi dei critici tra chi sosteneva trattarsi d’un film spurio, rispetto alla produzione del Maestro svedese, e chi, del tutto diametralmente, lo poneva invece tra i suoi più grandi e assoluti lavori. Inutile, d’altra parte, oltre che scorretto, azzardar paragoni e accostamenti tra il film e la piece teatrale: altro mezzo, altra epoca; basti dire che ci sono certo differenze, ma meno, in fondo, di quanto mi aspettassi, e più di forma che di sostanza. Gabriele Lavia, in veste qui sol di regista, immerge i quattro personaggi in uno strindberghiano dramma da camera – un atto unico di quasi due ore – che trova il suo completo evolversi nel salotto della grande casa di campagna di Viktor ed Eva; la scena (di Alessandro Camera) è grigia e dura e fredda: un gran finestrone composto d’opachi rettangoli di luce livida e gelida (imperversa un temporale per tutta la sera e la notte) occupa la metà superiore dell’ambiente; a questa fonte di luce – e a presunte stanze da letto (in particolare a quella di Charlotte) situate al piano superiore – si accede tramite un lungo corridoio-passerella praticabile che attraversa tutta la scena da destra a sinistra, a sua volta collegato con una scala al piano terra, che è il centro del palcoscenico, occupato per quasi tutta la sua superficie da un grande e complesso moderno divano dalla forma e dai cuscini retti e squadrati, un piccolo scrittoio, bassi tavolini, un grande pannello rettangolare alla parete del soggiorno; accanto alla scala una porta oscura e, sulla destra in primo piano, la “stanza di Erik”, giocattoli, sedioline, carillon. Completa l’arredamento un gran televisore; una tonda lampada da terra si curva al di sopra del divano e viene a porsi al centro della scena: è l’unico elemento costituito da linee curve in tutta la stanza, ed è anche l’unica fonte di luce calda, essendo invece la scena di regola illuminata da luci fredde che contribuiscono a scavare i tratti ed allargare le distanze.
Son sette anni che Eva, sposata con Viktor, non vede la madre Charlotte, concertista di gran valore e fama internazionale, che ha da poco perso il compagno Leonardo; rinchiusa dalla madre in una casa di cura, a causa di una non meglio precisata malattia che le nega qualsivoglia autonomia e le impedisce ogni comunicazione con il mondo, che si esaurisce in grida e suoni gutturali, la sorella di Eva, Helena, vive anch’essa da due anni con i coniugi. Con una lettera Eva invita Charlotte a passare qualche tempo con loro: l’arrivo della madre e il rivivere, nel corso della serata e nella notte, le ragioni e gli odi e le ripicche del tormentato e tormentoso legame tra madre e figlia segnerà un’altra tappa del loro rapporto, ma lo sguardo si allargherà anche a comprendere tutte le complesse interazioni e reciprocità tra i vari personaggi, in un crescere del dramma che vediamo sotto i nostri occhi incupirsi e infittirsi. E se da un lato lo scontro tra madre e figlia – o meglio tra madre e figlie, nella diversità della relazione e della reciproca reazione – occupa certamente il posto centrale nel racconto della vicenda, ci troviamo a indagare anche – e non potrebbe essere diversamente – il rapporto tra i coniugi, nella diversità del reagire alla morte del figlio Eric, annegato a quattro anni: se Viktor vive nel suo nostalgico e tormentoso ricordo – io sono la morte di mio figlio – rievocandone spesso la memoria guardando le immagini alla televisione, Eva si rifiuta di accettarne la morte, creandosi un figlio immaginario con cui gioca e parla. Il reciproco perdono – la pietà e la comprensione di cui pure si parla nel finale – sembra impossibile, in un continuo mutuo rimproverarsi le colpe: la colpa di Charlotte d’aver inseguito la sua carriera, e lasciato così figlie e marito, perfino causando, col suo atteggiamento, la malattia di Helena; d’altro canto Eva sente su di sé il disagio di non esser mai all’altezza, non solo nei confronti delle fortissime richieste materne, ma anche del marito, che non ama abbastanza, e del figlio della cui morte sente oscuramente il peso e la colpa, fino a negarla del tutto.
Il senso della colpa e la solitudine dei personaggi – il titolo originale del dramma, Höstsonaten, Sonata d’autunno, meglio sottolinea l’assoluto isolamento loro, dato che ognuno suona il “suo” pezzo, senza che mai si giunga, appunto, ad una vera sinfonia – trova riscontro e risalto anche nel lavoro degli attori, che, analogamente alle scene e alle luci, danno forza anche formale al disagio e alla fondamentale freddezza e insincerità dei rapporti: la sostanziale artificiosità delle relazioni fa pensare a transazioni psicologiche stereotipate, non spontanee, caricate di valenza nevrotica che ricorre al gioco psicologico piuttosto che alla verità, a facili scorciatoie secondo un canovaccio già sperimentato e impersonale, piuttosto che al continuo (ri)scoprirsi reciproco, cosicché ciascun personaggio si rivela e vive il suo personale lutto non elaborato per la perdita dell’oggetto d’amore su cui ha investito la vita, e, insieme, la sua personale modalità interpretativa. Così Anna Maria Guarnieri ci restituisce una formidabile Charlotte anaffettiva e sola, chiusa nel suo camicione rosso – pugno in un occhio nel generale grigiore dell’ambiente e degli abiti – come nella medievale corazza un cavaliere antico, forte delle armi del suo egocentrismo: la sua recitazione è affettata, ci giunge falsa come i concetti che esprime, risuonano, le sue manifestazioni d’affetto, come cembali vuoti e anespressivi. È una grande prova, che trova accenti di vera intima partecipazione solo rispetto al pianoforte (che il regista sceglie di non far vedere) e ai contorcimenti del dolore alla schiena che la perseguita: è la sua ormai finita carriera, il suo pianoforte, il perduto oggetto dell’amore suo.
Per Helena, interpretata con fisicità alienata e straniata da un’ottima Silvia Salvatori, scopriamo che l’oggetto d’amore è quel Leonardo ormai defunto, compagno della madre, che un giorno l’ha baciata: tanto bastò a far scattare il cortocircuito, i démoni della colpa prendere il sopravvento e invader la coscienza annichilita, ridurre a grida e spastico trascinarsi il suo rapporto con la vita e il mondo esterno. Valeria Milillo è invece – con eccezionale e quasi fastidiosa cura – un’ansiosa, iperattiva, ipercapnica Eva: il suo (perduto) amore non può essere, ovvio, altri che la troppo occupata Charlotte, la madre desiderata e attesa e sempre lontana e vacua, la madre tanto avara d’amore e di carezze quanto generosa d’umiliazioni e svalutazioni. Per ultimo, il Viktor di Danilo Nigrelli, tranquillo e calmo al limite del rassegnato e spento, vive ormai solo nella dimensione del rapporto virtuale con il figlio morto e di qui trae comunque la forza per vivere e andare avanti: egli sembra soprattutto colui che guarda – Ogni tanto mi soffermo a guardare mia moglie senza farmi vedere sono le parole con cui si apre e chiude la piece – ma è soprattutto il punto di equilibrio delle tre donne, la solida roccia, in fondo, cui esse, anche Charlotte, guardano e su cui, pur senza aggrapparsi, fidano, nel finale aperto che, nella pur incompiuta conclusione, li relega nel grigio limbo dell’irrisolutezza solitaria. Molti applausi alla fine da parte di un pubblico ammirato e convinto.