L’Eterno Ritorno dell’Angelo del focolare

Arriva anche a Napoli l’ultimo lavoro di Emma Dante

L'Angelo del focolare - ©MasiarPasquali

È breve, l’ultimo lavoro di Emma Dante, in questi giorni in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli, tutto racchiuso – quasi pure il tempo temesse snaturarsi diluendosi – in poco più di un’ora d’inaudita potenza: L’angelo del focolare è quanto di più intenso la drammaturga e regista siciliana possa aver scritto sulla famiglia, sul patriarcato interiorizzato e sulla violenza normale che s’insinua negli spazi domestici, li abita fino a contaminarli, normalizzandoli, rendendo cioè norma ciò che è invece violenza, abominio, orrore.

E lo fa non già attraverso una pièce teatrale tradizionale, dramma, commedia o tragedia che sia, prova invece, forte probabilmente dell’esperienza spesa con l’opera lirica, a costruire un apposito strumento, una vera e propria partitura scenica fisica e, di fatto, coreografica, in cui gesto, ritmo e ripetizione – ma anche suono, lingua, musica – costruiscono la drammaturgia, mettendo in scena il femminile schiacciato da un modello culturale che s’impone come naturale: la moglie-madre-serva devota, sorridente, sacrificata e uccisa sull’altare della tavola apparecchiata che poi torna ogni giorno a svegliarsi, prigioniera di una sorta di perversa coazione a ripetere.

Un Eterno Ritorno in cui l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere. E il titolo è già di per sé chiave ideologica che ci permette di leggere il contenuto da una specifica angolazione, perché riprende, in patente sarcastica polemica, la figura vittoriana dell’angelo del focolare così ben propagandato e propalato da certa stampa deamicisiana: donna, cioè, dedita esclusivamente alla cura della casa e del marito, ben addestrata sui principi dell’economia domestica e dei precetti pseudoreligiosi, priva di desideri propri, di speranze, di traguardi.

Ma la scommessa di Dante va ben oltre la rappresentazione satirica di una situazione, porta in scena non solo la figura di un certo femminino, ma soprattutto la violenza simbolica che la produce e la perpetua, il sistema che ne è alla base: il focolare, luogo dell’intimità e della protezione, svela la sua autentica natura di prigione, microcosmo di controllo, perdita di ogni forma di libertà. La struttura drammaturgica, come tanto spesso in Dante, non è costruita intorno a un vero e proprio percorso, procede, e cresce, invece, come per successive apposizioni piuttosto che seguendo una storia lineare, delineando un rituale fatto di gesti ripetuti  – servire la tavola, accudire, aspettare, subire – ritmi fisici ossessivi, corpi che imitano e replicano il maschile dominante, perché la ripetizione è una forma di violenza: qualcosa che ti spiega che così si fa, che così si è, una drammaturgia che non racconta la violenza,  la mostra, invece, come quotidiana coreografia.

L’Angelo del focolare – ©MasiarPasquali

I quattro protagonisti non hanno un nome proprio, ma sono indicati solo come Moglie, Marito, Figlio, Suocera: non è, naturalmente, una scelta neutra, serve a renderli icone, figure simboliche rappresentative non di un caso individuale, ma di un modello sociale e culturale. È interessante notare come qui si giochi molta parte del significato ultimo di questo lavoro: perché indicare con tali nomi i protagonisti li qualifica (dovrebbe qualificarli) immediatamente, inevitabilmente come archetipi, modelli primordiali, cioè, richiamandosi all’inconscio collettivo, di immagini originarie e complesse, universali e ricche di significato; di fatto, tuttavia, ciò a cui ci troviamo di fronte è solo copia rigida, piatta, semplificata, di quel modello universale, generalizzazione superficiale e limitata legata al pregiudizio, nella sua disperata prevedibilità, ciò che, in definitiva, chiamiamo stereotipo.

Ed è esattamente sulla incomparabile distanza tra archetipo e stereotipo che riflette l’Autrice, sulla contrapposizione tra persone e gesti unici e irripetibili – anche nella morte – e loro innumeri copie fotostatiche, che ripetono senza stancarsi i loro gesti e le loro follie in modo rigido ed epidermico, in eterno anancasmo: nel lavoro di Emma Dante gli stereotipi non sono un limite, ma un dispositivo politico, perché la scelta di non usare personaggi psicologicamente complessi né figure allegoriche elevate ad archetipo, ma funzioni sociali riconoscibili, quasi da “manuale”, serve a mettere in luce la struttura di potere che regola i rapporti familiari e che genera violenza.

Sceglie lo stereotipo, non il mito, perché vuole parlare del presente, non dell’eterno, quelle che vediamo agitarsi e morire sul palcoscenico sono figure che riconosciamo subito perché esistono, vivono intorno a noi, il cuore politico di questo lavoro risiede esattamente in questa smaccata, evidente riconoscibilità. In tal modo è possibile rendere visibile la struttura, non il caso particolare, non stiamo guardando una famiglia, ma LA famiglia dentro una cultura patriarcale, quella fatta di micro-violenze normalizzate: la cena da preparare, la suocera che osserva, il padre che si fa servire, mostrando meccanismi, non biografie.

La casa in cui vivono, poi, non è un contenitore realistico, diventa lente, specchio di un meccanismo sottostante, dove piegare una tovaglia, prendere le tazze, versare il caffè sono gesti minimali, composti, meccanici che diventano, in scena, coreografati, rallentati fino a diventare rituale, la cura misura la performance del dovere, soppesando ogni briciola non raccolta bene da terra, ogni piega stirata male, ogni caffè servito troppo tiepido sotto lo sguardo degli altri, distratto o predatorio, mai protettivo. Lo spazio domestico è una trappola, lo spazio scenico è spesso essenziale ma claustrofobico: il tavolo, le sedie, il letto, la cucina sono oggetti quotidiani che diventano strumenti di oppressione, piatti, tovaglie, caffettiere non sono semplici accessori ma indicatori di ruolo e potere e ogni arnese domestico – come un ferro da stiro – può trasformarsi in strumento di morte.

Anche i costumi (gonne, camicie da notte, grembiuli) sono vissuti come uniformi, segni di un’identità prescritta – le donne vestite o in camicia da notte, gli uomini in canottiera e mutande – la casa non è (più) luogo privato ma spazio di esposizione del ruolo sociale della donna, la Moglie (una straordinaria Leonarda Saffi) che è protagonista tragica dello spettacolo, figura centrale attorno alla quale ruota tutta l’azione.

L’Angelo del focolare – ©MasiarPasquali

Non è rappresentata come una vittima passiva in senso ingenuo: il dolore, la ferita (una ferita permanente sul viso) sono tessuti dentro la sua esistenza, perché la scelta di renderla “senza nome” le toglie la soggettività individuale, ma ne rafforza la valenza collettiva, è ogni donna – e insieme nessuna: la sua identità è sostituita dalla funzione che la società le attribuisce. Non fugge, non c’è riscatto individuale, non c’è salvezza, la sua impossibilità di andarsene (non può morire davvero, non può uscire da quella vita) è parte del messaggio drammatico dell’opera: il suo corpo ferito, il sangue visibile, la ferita sul viso servono a lasciare una traccia evidente di violenza, ma la crudeltà più grande è proprio l’indifferenza, la ripetizione, la banalità, gelida, del male.

Dentro di lei si agita un muto conflitto tra, da un lato, il desiderio profondissimo di essere vista con amore, almeno dal figlio, e, dall’altro, un auto-annullamento progressivo: ogni giorno muore, simbolicamente, ben prima che il marito la uccida davvero, la sua resurrezione quotidiana è solo riflesso di una psicologia traumatica, perché quando la violenza è ciclica, l’identità si frantuma e si ricostruisce continuamente, con un meccanismo tipico delle vittime di violenza domestica, in cui il corpo sopravvive anche quando la psiche è incapace di immaginare alternative.

Il Marito (descritto alla perfezione da Ivano Picciallo) è carnefice fisico e simbolico, è lui che compie l’atto estremo del femminicidio ma la violenza che rappresenta non è un gesto episodico: è volto, corpo e canottiera – che ne è diventata, ormai, visibile stigma – di un’autorità patriarcale che utilizza la casa come palestra del proprio potere, dove domina con prepotenza e sopraffazione. Il fatto che l’omicidio non sia risolutivo – la donna torna ogni mattina – mostra che la violenza non è incidente ma sistema e che il Marito non è solo un violento ma esecutore di un ordine culturale. È descritto come un “uomo maschilista, rude, irrispettoso e violento”, con un linguaggio poverissimo, “maschio” fino all’ossessività, le cui azioni — schiaffi, botte, l’atto estremo — sono messe in scena con una crudezza grottesca, che sottolinea l’aspetto animalesco, degradato, primitivo del potere maschile esercitato all’interno della casa: non c’è redenzione, né empatia, il Marito è immerso in un mondo di violenza normalizzata, in cui l’abuso è parte della quotidianità, non un’eccezione.

Cresciuto in una cultura patriarcale, ha appreso, con ogni probabilità, nella casa paterna che l’uomo comanda, la donna obbedisce, la forza è l’unico linguaggio, l’affettività una vergogna: la violenza non è un eccesso ma la normalità del suo codice affettivo. Pur non ammettendolo mai, desidera essere temuto e la paura della Moglie è il suo unico specchio, l’unica prova della sua stessa esistenza: il suo bisogno di dominio nasce da una sensazione di microscopica inferiorità verso il mondo, dove è uno qualunque, lavoratore mediocre, uomo senza talento, ha invece in casa un regno — minuscolo, ma suo — e una suddita, la Moglie, che uccide giorno dopo giorno perché è l’unico modo che conosce per affermare se stesso.

Il Figlio (un efficace David Leone) è insieme testimone e vittima collaterale della dinamica familiare, anche lui è coinvolto nella perpetuazione del sistema di violenza, non come carnefice — ma come soggetto plasmato da esso, cresciuto in quell’ambiente: il padre tenta di impartirgli le regole della virilità, una mascolinità tossica fatta di sopraffazione, modello da replicare.

L’Angelo del focolare – ©MasiarPasquali

Il Figlio diventa simbolo della trasmissione generazionale di una cultura patriarcale violenta perché non basta l’atto di uno solo; la paura, l’abuso, la sottomissione si trasmettono come eredità. Alla fine è la figura più tragica e ambigua, che attraversa uno stato psichico tipico dei bambini e adolescenti cresciuti nella violenza: dissocia – si stacca emotivamente dalla scena per sopravvivere – imita – ripete i gesti del padre per non essere colpito – osserva – registra tutto, creando una memoria dolorosa e muta – per cui la sua personalità non cresce: si deforma, senza alcuna possibilità di sottrarsi a ciò che detesta.

La Suocera (di cui Giuditta Perriera dà un convincente ritratto)  è l’altro pilastro — insieme al Marito — del potere patriarcale domestico: non solo consente la violenza, ma la giustifica, la banalizza, la normalizza, perché fa parte del meccanismo di copertura sociale, non c’è condanna, non c’è sdegno ma invece complicità silenziosa, indifferenza, accettazione culturale, la sua stessa presenza nella casa rafforza l’idea di una tradizione che scavalca le generazioni, perché la cultura della sottomissione non è solo maschile, ma femminile anch’essa, tramandata e interiorizzata.

Parla poi una sorta di gramelot spesso incomprensibile che allontana la sua soggettività e la rende, più ancora che le altre, figura collettiva, simbolica: nella dialettica tra i personaggi, è colei che neutralizza la soglia morale, parla, giustifica, minimizza, diventa il cuscinetto che rende l’abuso accettabile, normale, giustificato. Si nutre, la sua sopraffazione, di minimizzazione, comprensione, silenzio, rimprovero alla nuora: rappresentazione precisa della violenza culturale che rende pensabile, possibile, probabile quella fisica.

Così, di sopruso in sopruso passa la simbolica giornata, la tensione diventa sempre maggiore fino a che lo spettacolo-famiglia smette di funzionare, o meglio, funziona troppo bene, fino a diventare grottesco: il linguaggio scenico di Dante — fatto di accumulo, reiterazione, parossismo — spinge i gesti quotidiani fino al punto in cui diventano mostruosi, sovrumani, disumani. I corpi, allora, che nelle prime sequenze erano disciplinati, a tratti sincronizzati, ora si inceppano, debordano, diventano materia che non riesce più a stare nella forma che è stata loro imposta e questo passaggio segna la trasformazione dal “focolare” come luogo di calore domestico al focolare come fucina, come forno crematorio emotivo, dove si brucia l’identità della protagonista.

Negli ultimi momenti il corpo femminile esplode simbolicamente, la donna non è più madre/moglie/servo domestico ma fantasma, ombra, icona atrofizzata, tutto tende verso una chiusura che non è liberatoria, non c’è catarsi, c’è piuttosto constatazione, la donna non “esce” dal ruolo perché invece il ruolo piuttosto la inghiotte: uno smascheramento che è insieme atto politico e monito poetico, perché, sembra dirci Dante, la liberazione non avviene nel teatro, ma deve avvenire nella società, la scena, il teatro serve solo a far vedere ciò che fuori spesso preferiamo non guardare. E questa ci sembra la migliore delle conclusioni possibili.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Drammaturgia
Attori
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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leterno-ritorno-dellangelo-del-focolareL’angelo del focolare <br>testo e regia Emma Dante <br>con David Leone, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi <br>elementi scenici e costumi Emma Dante <br>luci Cristian Zucaro <br>coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma <br>organizzazione Daniela Gusmano <br>tecnico in tournée Marco Guarrera <br>produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Châteauvallon-Liberté Scène Nationale, Les Célestins Théâtre de Lyon, Comédie de Clermont-Ferrand, La Scène Nationale d’ALBI-Tarn, Le Cratère, Scène Nationale d’Alès en Cévennes, L’Estive, scène nationale de Foix et de l’Ariège, Théâtre + Cinéma Scène nationale Grand Narbonne, Théâtre de l’Archipel, scène nationale de Perpignan, Théâtre Molière, Sète – Scène Nationale Archipel de Thau, Le Parvis, scène nationale de Tarbes Pyrénées, Compagnia Sud Costa Occidentale, Carnezzeria <br>Durata 70 minuti circa senza intervallo <br>In scena dal 4 al 14 dicembre 2025 <br>Napoli, Teatro San Ferdinando, 7 dicembre 2025