Ritorno al Cinema Cielo

Il teatro di Manfredini come rosario di corpi e anime perdute

Cinema Cielo ph Daniele Ronchi
Cinema Cielo ph Daniele Ronchi

“I miei eroi sono loro, incollati al muro, loro e io che me ne sto qui, rinchiuso,” scriveva Jean Genet in Notre-Dame-des-Fleurs, e in Cinema Cielo quei fantasmi aleggiano ancora, intrappolati in un reliquiario teatrale firmato da Danio Manfredini con Sardegna Teatro e Teatri di Bari. Il cinema a luci rosse, ormai un’ombra di un’epoca svanita, si staglia sul palco non come luogo, ma come un limbo dove le anime si perdono e si cercano, lontane dagli schermi freddi di un presente digitale. Questo spettacolo, vincitore del Premio Ubu 2004 per la regia, torna dopo oltre vent’anni con una forza intatta, scavando nell’umano con uno sguardo che è insieme lama e carezza.

La sala intima del Teatro degli Impavidi di Sarzana accoglie un microcosmo di emarginazione e poesia: manichini e attori si fondono, dando vita alla platea di un cinema che non proietta film, ma esistenze. Qui, le voci registrate tratte da Notre-Dame-des-Fleurs – con Divine, i suoi amanti e un seducente assassino – si intrecciano ai movimenti reiterati degli attori e ai balli ipnotici. Quelle voci, grezze e spettrali, sembrano provenire da un altrove che inquieta e cattura, mentre i gesti meccanici vibrano di un’eco artaudiana, un rito che squarcia il velo della civiltà. Uno spettacolo perturbante, tra il voyeurismo di una sala estinta e l’intimità di presenze al confine tra reale e onirico: l’uomo col trench in attesa di un incontro fugace, i volti truccati che il buio sputa fuori.

Cinema Cielo ph Daniele Ronchi
Cinema Cielo ph Daniele Ronchi

La regia di Manfredini è un equilibrio perfetto: ogni gesto, ogni luce, ogni silenzio costruisce una malinconia che non consola, ma interroga – un’eco del grottesco lynchiano e del melodramma sporco di Fassbinder, dove il desiderio si consuma tra corpi e ombre. La scenografia, scarna eppure densa, trasforma il palco in un “luogo limite”, specchio di una società che rifiuta le sue diversità, con una carnalità che richiama i quadri di Bacon, corpi piegati tra orrore e fascinazione. Il sesso – merce, evasione, illusione d’amore – non è mai volgare, ma si fa simbolo di un’umanità che brancola verso la redenzione, come il grottesco degli amplessi meccanici che si scioglie in poesia.

Questo ritorno di Cinema Cielo parla al nostro tempo, dove i templi del desiderio si sono trasferiti altrove, meno tattili, più virtuali. Per chi non conosce Manfredini, l’approccio può sembrare ostico – non c’è una storia, ma un’atmosfera da abitare, alla Mulholland Drive – eppure è proprio qui la sua forza: non spiega, non giudica, invita a sentire oltre la superficie.

Cinema Cielo ph Daniele Ronchi
Cinema Cielo ph Daniele Ronchi

Il cast, manipolatori di fantocci e corpi vivi, dà carne a questo universo con una precisione che sfiora l’alienazione: ogni passo, ogni sguardo è un segno tracciato nell’aria, un’eco dei dannati di Genet resa palpabile. L’allestimento, un gioco di luci crude e ombre nette, costruisce una scatola metafisica dove i manichini – immobili eppure inquieti – sembrano giudicare i vivi, mentre il suono, tra voci registrate e silenzi pesanti, avvolge come un sudario. È un lavoro di cesello che amplifica la visione di Manfredini, trasformando il palco in un reliquiario non solo poetico, ma fisico.

Cinema Cielo è un’esperienza visiva e sonora che interroga, disturba, incanta: un teatro che dissolve la frontiera tra sogno e incubo, tra arte e vita, in un susseguirsi di tableaux vivants, in cui il reale si dissolve nel surreale. Un’ode ai fiori appassiti che ancora profumano nell’ombra.

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