Nijinsky secondo Michele Suozzo

[rating=2] Portare in scena i diari di Nijinsky è già di per sé operazione meritevole, sublimarlo con una performance degna del grande danzatore sarebbe stato la ciliegina sulla torta. Così non è stato per lo spettacolo La danza nelle tenebre al bel teatro dei Conciatori sempre pronto a sperimentare e indagare i meandri più affascinanti dell’arte più antica del mondo, interessante in ogni caso il tentativo.

Michele Cesari attore televisivo ai più noti per il bel faccino soapoperesco restituisce al pubblico un Nijinsky un po’ troppo frivolo e femmineo, ma lo sguardo c’è, peccato per la presenza scenica che un po’ deludicchia. Ottimo l’inizio con la comparsa nell’abito di Petruska, il balletto stravinskjiano che fra tutti gli offrì maggior popolarità, prima naturalmente dello “scandaloso” Pomeriggio dio un fauno sulle note di Debussy; l’idea di presentare Nijinsky agli spettatori nell’abito della marionetta dal corpo di segatura e testa di legno è metafora più che mai azzeccata, così come ci piace il suo progressivo spogliarsi di quell’abito per farsi maldestramente “umano” proprio come il burattino della tradizione russa. Perché di umanità perversa e scioccante ci vuole parlare questo controverso personaggio fra i più noti del novecento, da giovanissimo amante del mecenate Daghilev a padre amorevole della piccola Kira, giungendo infine ai meandri più oscuri e deliranti di una precoce demenza, immortalata fra quelle righe esaltate che impropriamente hanno definito “diari”.

Male elucubrazioni a volte geniali a volte folli sono più che altro zibaldone furioso e febbrile di una mente troppo prematuramente deviata dalla gloria e che tuttavia ancora oggi riesce a parlarci con un animo incredibilmente moderno. “Non sa cosa sia l’amore chi non ha conosciuto la solitudine” dice Cesari-Nijinsky in uno sprazzo di lucidità; bellissima, peccato che lo specchio girevole che il buon Suozzo voleva evidentemente offrire come allegoria del “riflesso”, era rumorosamente manovrato facendo perdere tutta la profondità della ”riflessione” è il caso di dire, senza considerare gli intermezzi musicali del cambio scena orfani di sé stessi, senza null’altro che il suono del clarinetto. Cesari è stato bravo ma senza graffiare, il testo drammaturgico materia fertile su cui si poteva investire di più, maggior mordente e avrebbe steso tutti, peccato.

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