
Ci sono spettacoli che non cercano il consenso, ma il confronto. Wonder Woman, creazione firmata da Antonio Latella, co-autore del testo con Federico Bellini, non accarezza lo spettatore: lo incalza, lo interroga, lo disturba. Con quattro attrici che gridano all’unisono e le luci accese in sala come in un interrogatorio, il teatro si fa corpo collettivo e denuncia. Una parola scenica che non chiede permesso, ma pretende ascolto. Anche a costo di strillare.
Lo spettacolo è approdato sul palco del Teatro di Rifredi di Firenze con la forza di un grido corale. Un grido incarnato da quattro attrici, Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara e Beatrice Verzotti, che si muovono e si impongono come un solo corpo scenico, vibrante, coeso, feroce.
Nella prima lunga parte, è la parola a dominare: un flusso verbale incalzante dal ritmo serrato, frasi urlate, ripetute come un mantra di un atto d’accusa collettivo. Il testo si fa grido, coro, sfogo. C’è forza, sì, e una notevole sincronia tra le interpreti. Le luci in sala restano accese, come nei momenti di resa: non c’è più spazio per il buio protettivo della platea. Siamo tutti dentro, complici o testimoni, bersagliati da un ritmo che non concede tregua. È teatro che forza l’ascolto fino a destabilizzare. La regia di Latella, supportata dai movimenti scenici di Francesco Manetti e Isacco Venturini, impone una coerenza spietata: il testo procede come un assedio, con un’energia costante, lasciando poco spazio al respiro.

Poi, come in un passaggio iniziatico, nella seconda parte la parola si attenua e lascia spazio al movimento. Le attrici, finalmente scalze, si adornano con costumi creati da Simona D’Amico: armature leggere, collane e ornamenti dai colori vivaci che evocano un immaginario arcaico e guerriero, barbarico e rituale. È difficile non pensare alle Amazzoni della mitologia, sorelle e compagne ideali della Wonder Woman dei fumetti. Ma il richiamo iconografico va oltre: quei corpi adornati sembrano appartenere a un popolo ancestrale, senza tempo, che danza e lotta per la propria esistenza. I movimenti, scanditi da gesti collettivi, ricordano una haka, e tutto – costumi, gestualità, coralità – contribuisce a costruire un rito scenico femminile e salvifico, che denuncia e resiste.
Lo spettacolo prende spunto da un caso reale avvenuto ad Ancona nel 2015: uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza peruviana. In appello, i tre imputati furono assolti anche perché la vittima, ritenuta “troppo mascolina”, non sarebbe stata desiderabile. “Vichingo”: così la chiamavano. Un soprannome che disumanizza e rivela una giustizia ancora incapace di tutelare i corpi femminili. Ancora più inquietante, il fatto che la sentenza fu firmata da tre giudici donne. Un dettaglio che spalanca interrogativi laceranti su quanto in profondità si radichi la cultura patriarcale, anche nelle sue forme più inconsapevoli, persino quando ad agire non è l’uomo ma l’istituzione.
Il segno registico è netto, radicale, ma non privo di soluzioni ormai codificate, come le immancabili scarpe rosse, che rischiano di apparire più illustrative che realmente evocative. Anche la drammaturgia, pur sostenuta da intuizioni potenti, inciampa nella trappola della retorica. Tocca temi cruciali – patriarcato, stereotipi, giustizia negata – ma non sempre riesce a strutturarli in modo incisivo. Il testo si dilunga e invece di stringere attorno al caso giudiziario, devia verso una denuncia più ampia e generica. Il verdetto delle giudici ha la forza di uno schiaffo, ma rimane isolato, non sviluppato fino in fondo, né trasformato in un crescendo drammaturgico che avrebbe potuto dare maggior forza al finale.
A fronte di una prima parte con l’energia costantemente al massimo, si sente la mancanza di momenti di sospensione, di silenzio, di stacchi che permettano al testo di respirare e allo spettatore di assorbire. L’assenza di una dinamica emotiva più ampia rischia di rendere l’esperienza teatrale monocorde, nonostante l’altissimo livello della prova attoriale. È proprio dalle attrici e alla loro prova intensa, che arriva il segnale più forte, in particolare Chiara Ferrara, che emerge dalla coralità del gruppo per intensità e qualità scenica. Così come dai costumi, che sanno evocare senza esibire, e da un allestimento essenziale ma eloquente.
Wonder Woman non è uno spettacolo perfetto, ma è uno spettacolo necessario. Forse avrebbe giovato di una maggiore asciuttezza, di un finale meno ideologico e più scenicamente risolutivo. Ma resta, nella sua irruenza, come un gesto che non si dimentica facilmente. Un grido che cerca il rito, e prova a trasformarlo in azione.