Le baccanti, i cembali squillanti, il silenzio di Dio

Al Teatro Grande di Pompei, per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi, in scena fino al 16 luglio Le Baccanti di Euripide, per la riduzione e la regia di Andrea de Rosa

È una rockstar, Dioniso – o il suo sacerdote alter ego – per giunta femmina, il dio che si mostra mutate le sembianze celesti in forma umana, secondo Andrea De Rosa che cura adattamento e regia di queste stupefacenti(!) Baccanti qui al Teatro Grande di Pompei: ricordo non solo estetico, epidermico e celebrativo della kermesse dei Pink Floyd, che esattamente quarantacinque anni fa – visto come presto passa mezzo secolo? – vennero a compiere qui, tra le rovine del vicino anfiteatro, il gesto che divenne uno dei punti più alti, ben presto mutato in leggenda, della storia del rock e della musica moderna in generale. E non è solo dettata dalla sterile memoria, la scelta di rappresentare così, in uno degli infiniti modi possibili, la presenza del Puer Æternus in mezzo a noi: perché se è vero, come dice Silvia Ronchey in un famoso pezzo sul ritorno di Dioniso, e riportato nel programma di sala, che “quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia…allora, Dioniso si manifesta”, è pur vero che, attraversando lo specchio delle svaporate apparenze, raggiungendo la terra di mezzo delle meraviglie e delle isole che mai furono, nulla è più ciò che appare, il bello e l’orrido sembrano appaiati correre vicinissimi sull’orlo del baratro nero, dietro la carezza ecco nascondersi il sangue della violenza estrema, la pausa dal dolore rivelarsi alla fine non già il rimedio al male del mondo ma solo apparente e temporaneo diversivo, inganno della coscienza, strabismo delle emozioni che ci fanno scambiare il bene col male e viceversa, il maschile e il femminile, l’emozione e la sapienza, il torto e la ragione, la libertà e l’autorità, l’identità e la pluralità, la testa decapitata del leone e il figlio della donna.

Ambiguità. Che si nutre di sospiri nel buio e pulsar del cuore nell’esaltazione d’enormi amplificatori, perché s’inebri non solo il suono, ma la percezione che di esso ne abbiamo, perché si celebri il dio della maschera e del tirso, nelle folle oceaniche plaudenti delle piazze d’allora, dei social dell’oggi, nell’integralismo dei seguaci che s’abbeverano alla fonte dell’eterna giovinezza e del sospetto perenne, pronti a scambiare un attimo d’effimera grazia con cent’anni di sereno errare. Del resto, è da quando Euripide l’ha scritta, che s’interrogano i sapienti sul significato intimo di questo testo, ultima e, probabilmente, più importante delle tragedie greche – non fu Dioniso, forse, a insegnare agli uomini l’arte della catarsi, del transfert delle personali e collettive emozioni, inventando un luogo dove esse potessero scontrarsi, dissiparsi, dipanando il filo d’Arianna del proprio dolore perché, alla fine, venisse compreso e vinto? – che mette in scena, forse, d’obbligo il dubbio, la fine della possibilità stessa della tragedia. Procedono, dunque, per questa strada al tempo stesso ferma e incerta, De Rosa e i suoi agguerriti attori, Federica Rosellini per prima, carezzevole e violenta avatar di Dioniso, perfetta icona androgina dal ruggente e vellutato sospirare parole che si perdono in controluce – e quanta fame di luce riesce a dare questa oscurità ambigua che s’illumina, a tratti, del guizzo della folgore – ora perfetta arruffapopolo dai tratti falsamente populisti che rinviano a una liberazione che intuisci, con ogni probabilità, diversa schiavitù, ora carezzevole ammaliatrice di uomini e donne, promettendo a tutti indistintamente amore e felicità, lutti e sangue, erotica icona della diversità, straniero in terra straniera come nell’apologo d’Heinlein.

Lino Musella, poi, disilluso e impotente ultimo eroe, Penteo che porta il suo destino nel nome, ma che non tenta nemmeno più, come gli altri protagonisti delle tragedie che furono, di spezzare le catene dell’ingranaggio che inesorabilmente lo stritolano: per tutta la prima parte è “spettatore”, interviene, certo, ma stando seduto come sul trono sulla sua brava poltrona di velluto rosso, di spalle alla platea, anzi, platea pure lui, come in certa politica, rappresentante di “tutti noi”, della “gente” seduta qui in teatro e nella vita, in attesa d’una catarsi che non verrà, d’uno sbrogliarsi della crisi che mai non ci sarà, consumando la vita in un abbaiare ordini a soldati che non ci sono (o che non avvertiamo), nell’esercizio sterile d’un’autorità svuotata ormai d’ogni rispetto, i cui proclami risuonano vuoti, come cembiali squillanti nel nulla, appelli scoraggiati e infidi a valori in cui creder senza fede, fino alla tentazione finale: “Le vuoi vedere, le donne?”: si consuma, il patto, nell’ambiguità d’una metamorfosi che solo apparentemente è repentina, e che si realizza, infine, nel mutarsi di Penteo in una copia del dio – ne abbiamo tutti negli occhi le immagini caravaggesche e non facciamo dunque difficoltà a percepire l’avvenuta trasformazione, intuendo che, se l’apparenza era precedentemente diversa, unica era la materia, non essendo Dioniso e Penteo che parte della stessa realtà, della stessa substantia, nell’omogeneità di ciò che sta alla base, oltre l’immagine; non ci sarà, per lui, alcuna possibile redenzione, alcuna possibilità di fermare l’attimo, di salvarsi sussurrando un “fermati, sei bello!” dell’ultim’ora, perché l’attimo, alla fine, non è bello per niente, assume le sembianze allucinate e strambe di chi t’ha messo al mondo, che ti fa letteralmente a pezzi, che ti decapita, portando giù dal Citerone, fuori dal buco nero regno delle Baccanti – parallelepipedo nero lucente, ibrido spurio dell’autotreno su cui viaggiavano le band negli anni settanta e della sentinella dello spazio frutto dello sguardo di Clarke e Kubrick, venuta giù dai cieli per insegnare agli uomini l’arte e la guerra – la tua testa come un trofeo.

Perché quando, alla fine, la tragedia è compiuta, sta ad Agave, Cristina Donadio, seduta alla base d’un’enorme torre d’amplificazione vomitata dal tubo nero, mostrare in tutta la possibile crudezza il gesto chiuso e concluso della decapitazione e del ludibrio della testa dell’uomo che fu – del figlio che fu – come sarà ancora in Wilde e in Strauss: trofeo d’una forza oscura – muliebre, e dunque svalutata – il capo della persona amata, scambiato per quello d’una bestia, per volere del regista sbattuto con forza e ritmicamente da Agave tra le sue cosce aperte, in un gesto ancora contraddittorio e ambiguo, che nasconde sotto l’ostentata oscenità dell’apparenza la vera natura del segno, incerto tra coito e parto, orgasmo e dolore, fino all’agnizione finale in cui l’orrore si perde nel silenzio, mentre con gesto infantile – ora sì, è lui, non più il suo profeta – il dio adolescente, appollaiato sull’enorme torre, mette sul capo la parrucca di Penteo, chiudendo inequivocabilmente il cerchio degli infiniti ritorni dei tempi con il respiro delle stagioni, fino ad assumere, per l’improvvisa nostra agnizione, l’apparenza del Bacchino malato. Al Tiresia di Marco Cavicchioli, al Cadmo di Ruggero Dondi chiudere, con l’eterna domanda che non ha repliche: “Ma l’ira degli dei, non dovrebbe esser diversa da quella dei mortali?“. La scena si fa improvvisamente deserta e vuota, per la prima volta da che esiste la tragedia, invenzione del dio, siamo al capolinea, al punto senza ritorno, all’ambiguo silenzio senza risposta. La tragedia, per davvero, è finita.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
Articolo precedenteKilowatt Festival 2017 inaugura con le Miniature Campianesi, di Ermanna Montanari
Articolo successivoCOSO, FUNGO VELENOSO | Conosci te stesso!
le-baccanti-i-cembali-squillanti-il-silenzio-di-dioLe baccanti <br>di Euripide <br> <br>adattamento e regia Andrea De Rosa <br>con Marco Cavicchioli, Cristina Donadio, Ruggero Dondi, Lino Musella, Matthieu Pastore, Irene Petris, Federica Rosellini, Emilio Vacca, Carlotta Viscovo <br>e con le allieve della Scuola del Teatro Stabile di Napoli Marialuisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei <br>scene Simone Mannino <br>costumi Fabio Sonnino <br>luci Pasquale Mari <br>sound designer G.U.P. Alcaro <br>musiche originali G.U.P. Alcaro e Davide Tomat <br>cura del movimento Alessio Maria Romano <br> <br>produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia <br> <br>Pompei, 14 luglio 2017 <br>In scena dal 14 al 16 luglio 2017 <br>Durata 1 ora e 15' circa