
La storia è quella del discusso poeta Genet che incontra sul finire degli anni ’50 un acrobata tedesco-algerino, Abdallah Bentaga, col quale intreccia un morboso rapporto artistico-sentimentale. La storia fra i due porterà il giovane circense, spinto con ogni mezzo da Genet, a farsi funambolo, scelta che poi lo trascinerà rovinosamente alla caduta fisica e umana negli abissi del fallimento. Un’estetica della morte quel poemetto omonimo della trasposizione teatrale di Daniele Salvo al Vascello di Roma, tutto teso a fare del teatro “una sfida oltraggiosa e metafisica”, sulla cui arena il vecchio poeta francese era pronto a immolare perfino il “suo” funambolo… Ma qui ahinoi di immolato c’è solo il pubblico, costretto ad una visione a dir poco soporifera.
Ecco un bell’esempio di vestito scintillante senz’anima, vincono infatti la scenotecnica, il disegno luci, i costumi, tutti ineccepibili, bellissimi, anzi unici, ma per il resto, tutta aria fritta e ci scappa un tu quoque per il regista di scuola ronconiana! Sì perché a voler interrogare gli assopiti spettatori sul contenuto dell’opera in scena, c’è da scommetterci un bel silenzio imbarazzato. Si parla molto in realtà, troppo, ma non si dice niente. Manca di emozione, di tensione sessuale, di audacia sfrontata e follia, di plagio autocelebrativo, di passione, sforzo sovrumano. Manca infine soprattutto lei, la caduta, quella che ti fa morire prima di morire, la morte che sovviene quando nel gioco crudele del circo gli spettatori chiudono gli occhi, negando a mesi, anni di fatica, il trionfo della ribalta. Tutto questo, contenuto nel poemetto, nello spettacolo non c’era, o meglio c’era, ma impolpettato alla rinfusa, senza pathos, senza crescendo, senza apoteosi finale. Si passano quelle quasi due ore ad attendere che qualcosa finalmente accada, ma no, non succede proprio nulla.
Eccezion fatta per la meravigliosa Melania Giglio, ineccepibile interprete di un fantasmagorico dark Pierrot in bici, per i bei costumi di Daniele Gelsi, per le musiche originali di Marco Podda e per la scena magnificamente resa da Fabiana di Marco, vera protagonista a questo punto di tutto il carrozzone, non resta fra le dita altro che il velato pulviscolo della tenda da circo, dissipato nell’aria con un paio d’applausi, stavolta pure immeritati. Peccato per Giordana che comunque fa la sua parte, ma quel testo malamente riadattato non gli rende giustizia, così come a Giuseppe Zeno, una faccia indimenticabile in tv, ma qui monocorde, statico. Presenti e primi della classe gli “effetti speciali”, ma assente un necessario lavoro sul testo, la “ciccia” insomma. Uno spettacolo vuoto, sulle cui scapole scheletriche è stato cucito un abito sì spettacolare, ma troppo corto, che lascia scoperte le mancanze del lavoro drammaturgico.