
Un pianoforte a mezza coda, i cui tasti si animano di luce al tocco segreto di un’interprete, da tempo assente dalla scena musicale, ma catapultata a Milano da chissà dove. È una presenza inaspettata quella di Eunice Kathleen Waymon, al secolo Nina Simone. Un corpo color ebano riempie con la sua carnalità un décolleté scuro, che si illumina via via delle colorazioni del blu, del viola, del rosso, come il palcoscenico e a tratti la platea. Una platea chiamata, nella sua responsabilità politica, ad uscire dalla comoda posizione di spettatrice. Nina la scruta. Nina la interroga. Sono colori dai valori simbolici, evocativi di situazioni e stati d’animo che ritornano nei testi delle canzoni: l’afflizione del sentimento blues, il sangue della lotta per i diritti civili, il viola del romanzo di Alice Walker e dei movimenti di liberazione della donna. È una narrazione introspettiva, ma diretta, quella con cui il soprano Claron McFadden ricrea davanti a noi, con sensibilità, la figura dell’artista scomparsa nel 2003, nello spettacolo “Nina” di Fanny & Alexander, visto al Teatro Grassi di Milano, nell’ambito del Festival Presente Indicativo del Piccolo Teatro.
Esposta al canto e alla musica da quando viene al mondo, sogna fin da piccola di diventare la prima pianista classica afroamericana. Ma la sorte le è avversa: dopo avere frequentato la Julliard School di New York, la ragazza non supera il provino d’ammissione al conservatorio di Philadelphia: il prestigioso Curtis Institute of Music. Mancanza di merito? No, è solo di pelle nera. Però il dubbio persiste e la discriminazione di cui è vittima sarà un motore forte della sua biografia artistica. Lo studio rigoroso di Bach, Chopin, Rachmaninov, Beethoven, Liszt le ha dato comunque una solida base esecutiva e compositiva su cui confidare.
La voce, dal timbro ora caldo ora aspro, non le manca, le parole neppure. Parole poetiche con una piena aderenza alla realtà intima e sociale, che nascono dal bisogno di “comunicare qualcosa a qualcuno”. In questo modo spiega le origini della sua poetica. È così semplice, eppure così lontana da una scena mainstream non necessaria. Le canzoni rivelano una presa di coscienza: della rabbia, della paura che stringe gli afroamericani, della bellezza del suo popolo da celebrare. Il colore nero è quello dei capelli del suo uomo (“Black is the color of my true love’s hair”). Ma nero è anche il colore di donne private della loro identità, perché asservite al potere maschile, come Aunt Sarah, Saffronia, Sweet Thing e Peaches (“Four women”). Nina può scrivere esili ballate (“Little girl blue”), a volte espressione dei soprusi che soffocano le donne che amano troppo. O può dare voce alla condanna degli schiavisti che non saranno presi da Dio, ma neppure da Satana, per giacere per sempre nel fetore della loro tomba. Così in “Dambala”, la cover del brano del poeta haitiano Exuma, uno spiritual che evoca uno Ioa wodu, spirito della saggezza e della fertilità.
È il momento anche di “Mr.Backlash Blues” sulle parole di Langston Hughes, figura della Harlem Renaissance. Dopo l’assassinio dell’attivista afroamericano Medgar Evers nel 1963 e l’attentato in una chiesa battista di Birmingham in Alabama, ad opera del Ku Klux Klan, l’artista lancia un’invettiva contro la persecuzione degli afroamericani in “Mississippi Goddam” e si impegna nelle battaglie civili, al fianco di Martin Luther King. Nina Simone rivendica adesso anche la necessità della sua gente di riconnettersi con quella identità di cui è stata privata, per divenirne consapevole: lascia gli States e parte per la Liberia. Quanta strada ha fatto dal suo sogno originario di bambina nera del Nord Carolina.
Nella sua musica si esprime potente il ritmo, che si genera con il respiro ed il battito del cuore. È un ritmo che ci accompagna dai primi istanti di vita e in un brano dedicato a Myriam Makeba, lo celebra. “La voce umana è lo strumento più puro”, così aveva esordito la performer all’inizio. È uno strumento che Claron McFadden dosa con equilibrio, fra tenerezza, pietà, indignazione. È lo strumento quasi esclusivo a cui affida il suo racconto sul disegno musicale, che firma insieme a Damiano Meacci, e le percussioni di Adama Gueye.
La drammaturgia è di Chiara Lagani. Soggetto, regia e luci sono di Luigi De Angelis, che ascoltando le interviste di Nina Simone ad occhi chiusi, ha tratto ispirazione dalla cifra della sua “impronta sonora” ferita, riproposta in scena all’interprete, con la tecnica del remote acting.