Intrigo e amore, desiderio d’eterna giovinezza

Al Teatro Mercadante di Napoli in scena "Intrigo e amore" di Friedrich Schiller, regia di Marco Sciaccaluga

“Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcoscenico com’è di giorno, senza né quinte né scena, quasi al buio e vuoto, perché abbiano fin da principio l’impressione d’uno spettacolo non preparato”. Sì, avete ovviamente ragione, questo è Pirandello, non Schiller, ma entrando in sala, ieri sera, qui al Teatro Mercadante di Napoli per Intrigo e amore, per la regia di Marco Sciaccaluga, difficile non farti venire in mente questa didascalia famosa. Al centro, in penombra, l’americana abbassata e incombente, qui, sul palco, un pianoforte a coda, intorno sedie e strumenti, come la scena attendesse una prova d’orchestra; quando, nel brusio che precede l’inizio, un personaggio vestito alla moda del ‘700 – giacca lunga blu, culotte beige, calzettoni scuri, parrucca indossata in modo da lasciare scoperta molta parte della fronte – si siede al pianoforte e comincia a suonare, l’americana si alza, le luci si spengono in sala, il dramma può cominciare.

Il personaggio è Wurm, il Segretario e anima nera del potente di turno, il Presidente von Walter, l’attore è Andrea Nicolini, e durante la pièce è sempre in scena, per la parte sua, certo, ma pure, sottolineando i momenti salienti, scandendoli a mo’ di didascalia vivente ricordandoci ogni cambio di scena, suonando il pianoforte ed altri strumenti: dalle fonti sorgive stesse del romanticismo – l’agitato, giovane e veemente Sturm und Drang della rivendicazione e della ribellione – siamo così aiutati a rapportare quelle apparentemente ormai polverose vicende al nostro vivere l’oggi, a far diventare, così, socialmente utile quell’apparenza di realtà, immergendo vicenda e attori, in perfetti costumi d’epoca, in uno spazio che è realistico – è lo spazio di un’orchestra – richiamandosi al nostro vissuto, ma certo non naturalistico.

La musica in scena è suggestiva tuttavia d’altre possibili ascendenze, permette sottili o grossolani trait d’union, lo stesso testo autorizza una possibilità di rapporto stretto con la musica e la partitura, attraverso ricorrenti metafore d’armonia e dissonanza che, addirittura, segnano il percorso dell’intera vicenda, che trapassa dalla consonanza dell’amore alla cacofonia della tragedia e della morte. Miller, il padre della protagonista, è un musicus, abita in una casa che è anche il luogo dove dà lezioni di musica, piena di strumenti – e noi li vediamo in scena questi strumenti, un violoncello, timpani, piatti, un clarino, un violino verrà addirittura fracassato in scena dal Ferdinand in un accesso d’ira, gli attori li suonano di quando in quando, a caso o con intenzione, “in modo malizioso e disarmonico per sentire i contrappunti del diavolo”, dice Sciaccaluga – lo stesso dipanarsi dell’amore dei due giovani trova origine e occasione nelle lezioni di flauto del giovane Ferdinand, che quindi ha conosciuto Luisa proprio per questo motivo.

L’intera pièce risponde poi ai canoni di un vero e proprio melodramma, sia perché tutto è costruito attorno ad uno degli archetipi primari del melodramma – la fanciulla di umili origini che è vittima, capro espiatorio di un mondo fondamentalmente ingiusto – sia perché la cronaca degli sfortunati amanti viene narrata da Schiller in uno stile fortemente, asperrimamente, esageratamente melodrammatico: i sentimenti straripano, le passioni trasbordano, la drammaticità esonda, le emozioni travalicano, il pathos abbonda, le situazioni si accendono, i colori abbagliano, i toni si sovraccaricano. In questo mondo i buoni son troppo buoni e i cattivi troppo cattivi, i tiranni sono spietatissimi, i leccapiedi vermi ignobili; vien da attendersi, ad ogni momento, un fortissimo d’orchestra, un rutilar di piatti, timpani e tamburi, ininterrotta ventosa tempesta che agiti menti e cuori in un crescendo inarrestabile d’orchestra.

E infatti Verdi, vecchio esperto di teatro, ci ha subito visto la possibilità di farne un dramma in musica, la Luisa Miller, dramma oscuro e nero che di poco precede la grande trilogia, tragedia poco fuori dagli anni di galera e dall’epopea risorgimentale, ininterrotto fiammeggiare d’amori cui manca tuttavia ciò che invece in Schiller è cruciale, il conflitto tra libertà e tirannia, confinando il dramma all’amore contrastato: tragedia eminentemente “privata”, se si vuole, cui manca invece la valenza sociopolitica. Che invece è, ovviamente, presente qui e che, grazie al lavoro di salutare “traduzione” – che quando è efficace, come in questo caso, “tradisce” la parola e lo spirito del testo, è cioè capace di suscitare in noi le stesse reazioni che l’Autore si proponeva di smuovere nel pubblico suo del 1784 – compiuta da Danilo Macrì per il testo e da Marco Sciaccaluga per la regia.

Così il traduttore ha, certo, provveduto ad aggiornare il linguaggio sfoltendo la retorica ottocentesca – si tenga presente che la rappresentazione integrale di Intrigo e amore richiederebbe cinque ore, un tempo e una pazienza improponibili al pubblico odierno – ma senza tagliare alcuna scena né, d’altra parte, introducendo vocaboli troppo “moderni” che avrebbero evidentemente reso non credibile tutto il lavoro. Il risultato è, così, perfetto, son capaci, i personaggi, pur con le parole scritte duecento anni fa, parlare il linguaggio nostro quotidiano, non solo perché evitano quasi del tutto la retorica furiosa di quegli anni, ma perché sanno dire una parola su di noi, sui problemi nostri, perché “i grandi classici sono dei profeti che hanno avuto la capacità di osservare il loro presente attraverso la loro conoscenza del passato per proiettarsi a immaginare il futuro”, dice il regista. Così, è facile ritrovare, in questa storia in cui tutti perdono, prigionieri come sono della rigida prigione delle convenzioni sociali, molto dei tempi e delle passioni nostre, il brillare chiarolucente del furore giovanile, l’esaltato, inane, irresistibile desiderio di rinnovamento eterno.